Durante
i miei studi di filosofia e psicologia molte cose mi sono sembrate intimamente
legate all’Aikido. Molte volte sono rimasto sconcertato nel vedere affiorare in
modo tanto evidente quanto
naturale
e razionale relazioni tra l'etica presentata da certi filosofi e i principi della
“Via”, tra le affermazioni di Hegel sullo Spirito Assoluto e la mistica di
O-Sensei. Spesso ho speso ore a leggere e rileggere passi dei testi dei grandi
pensatori del passato e a confrontarli con l'esperienza dell'Aikido, a
intessere paralleli tra il concetto greco di “pneuma” e quello di e di “kokyu”.
Tuttavia
un sano spirito cartesiano mi ha sempre tormentato in ogni riflessione
spingendomi acercare qualcosa che giustificasse sia questi rocamboleschi
accostamenti che la presunta validità universale della pratica, adatta a
chiunque a prescindere dalla razza, dalla religione, dal sesso o dal livello di
istruzione. Una base prima, un assioma certo da cui far partire una riflessione.
Una
frase di Watzlawick mi ha aperto la strada facendomi vedere le cose da una
prospettiva diversa: “Non si può non comunicare”. L'uomo comunica
costantemente, comunica verbalmente e non, con il silenzio, mentre dorme,
continuamente viene interpretato da chi lo osserva o lo ascolta.
Filosoficamente
potremmo dire che l’essere nel mondo non è mai disgiunto dal comunicare e la
comunicazione non è un fatto accidentale o occasionale ma permanentemente
legato all'esistenza. Il comportamento comunica costantemente e tra essere e
comportamento non v'è distinzione. Sempre
Watzlawick
ne “La Pragmatica della comunicazione umana” rileva che “il comportamento non
ha un suo opposto”, non esiste un qualcosa che sia definibile come un
non-comportamento o un momento in cui l'individuo abbia un non-comportamento.
Queste
affermazioni valgono per tutti gli esseri viventi e, con maggior forza, per
tutti gli esseri umani, i quali sono dotati di sistemi rappresentazionali e di
comunicazione assai più complessi e completi degli altri animali (anzi si
potrebbe dire che, dopo il pollice opponibile sia questa la caratteristica che
“fa la differenza”). Tuttavia quando pensiamo alla comunicazione, l'espressione
più immediata che ci viene in mente è la comunicazione verbale. Gli studi sulla
comunicazione in ambito psicologico e sociologico ci insegnano, invece, che
solo una piccolissima parte della comunicazione si esplica attraverso la parola
e che più dell'80% di essa avviene attraverso canali e modelli non verbali.
Nella
comunicazione verbale il flusso del parlare attraverso il tempo è composto da
una sequenza di unità sintattiche formate da subunità chiamate frasi. Le frasi
sono a loro volta formate da subunità chiamate parole, ciascuna parola è
composta da una sequenza di morfemi e ciascun morfema da una sequenza di fonemi
particolari. La posizione della testa, delle spalle, degli occhi, delle mani,
sono segni attraverso i quali esprimiamo contenuti sia in appoggio ad
espressioni verbali sia in modo autonomo.
Tutto
il corpo collabora alla comunicazione e, così come possiamo identificare le
unità che costituiscono il flusso significativo della comunicazione verbale,
altrettanto possiamo fare per quello che riguarda i modelli di comunicazione
non verbale. Tutto il comportamento è strutturato in questo modo: possiamo
identificare unità distinte e reali del comportamento e determinarne i livelli
gerarchici che si integrano per costruire una più grande unità significativa
così come le unità linguistiche si integrano per costruire una frase.
Gli
studi di psicologia sulla comunicazione e quelli di prossemica sulle distanza
significativa tra gli individui ci dicono con forza di prove che il solo stare
di fronte ad un altro comunica una serie di significati complessi che passano
attraverso indicatori specifici quali, appunto, la distanza e la posizione
(Ma-ai e Shisei).
Una
serie di atteggiamenti collaborano a specializzare il messaggio: la posizione
delle mani, la direzione e l'intensità dello sguardo, la tensione delle spalle
etc.
L”insieme
di tutte queste specificità corporee costituisce l’unità significativa
fondamentale della comunicazione non verbale: la postura.
Albert
Scheflen, pioniere della ricerca sociosomatica, definisce la postura:
"unità comunicativa complessa che comporta una sequenza di unità
simultanee di attività". Più semplicemente, la posizione nel suo intero
comunica una serie di informazioni attraverso l'attività delle subunità che la
compongono, ovvero orientamento del corpo o di parti di esso (testa, gambe,
occhi, tronco), posizione e attività delle mani, posizione delle spalle, etc.
L'intero corpo viene impiegato in un complesso di attività orientative e
comunicative.
La
posizione "comunica l'intenzione" di mettere in atto dei
comportamenti, siano essi azioni o comunicazioni. Una posizione viene assunta e mantenuta
mentre e per tutto il tempo durante il quale una certa attività viene eseguita. Quando tutte
le attività comprese nella posizione sono state completate il soggetto assumerà
un altro orientamento.
Vale
la pena a questo punto fare alcune precisazioni e qualche collegamento. Nella
normale attività comunicativa, gli studi di psicologia che si occupano del
comportamento hanno rilevato che le persone mantengono in modo inconsapevole la
stessa posizione durante tutto il tempo per il quale esprimono la medesima
unità concettuale. Ad esempio se una unità concettuale è cominciata con il
gesto di cadenzare le parole con una mano, questo gesto verrà mantenuto fino al
momento in cui tutto il contenuto verrà espresso (ciò è vero anche se chi parla
viene interrotto. Quando riprenderà ad esporre il contenuto della unità
concettuale riprenderà lo stesso gesto).
Questa
aderenza della medesima posizione alla unità concettuale espressa è un fatto,
come ho già detto, inconscio. Tuttavia si è rilevata una tale congruenza tra
posizione e comunicazione verbaleanche per quanto riguarda classi di unità
concettuali.
Ad
esempio Schelfen ha dimostrato che se silega in modo solido alla frase
"immagina un vaso" un gesto delle mani che disegna idealmente una
coppa (mani a conca con le palme rivolte verso l'alto ed un leggero movimento a
semicerchio in su), tale gesto verrà ripetuto in ogni occasione in cui
l'attività dell'immaginare è coinvolta, a prescindere dal contenuto.
Questo significa che se mentalmente leghiamo ad un movimento
una attività cognitiva o una idea,
quell’attività avverrà in modo automatico ed inconscio ogni
volta che faremo quel dato movimento
Una
tecnica di Aikido può essere vista come
una unità significativa, composta da molte subunità. Le subunità possono essere
identificate nelle posizioni che si susseguono e costruiscono la tecnica. Ogni
posizione, a sua volta può essere scomposta in una serie di subunità radice od
originarie (microcomportamenti) che sono costituiti dalla postura delle mani,
dei piedi, dalla direzione dello sguardo, dalla posizione del corpo, ecc.
A
ben guardare, la prima cosa che si studia quando si comincia a praticare Aikido
sono proprio queste subunità originarie (Shisei, Kamae) e, prima tra tutte, la
"posizione naturale del corpo" (Shizentai).
Vale
la pena ricordare a questo punto che la posizione è comunicazione e quindi
comportamento. Il solo stare dritti in piedi coinvolge tutta una serie di
messaggi che derivano dalla tensione del tono muscolare, dallo sguardo
dalla
posizione del peso, etc.
Tutte
queste variabili possono essere modulate per trasmettere un messaggio:
aggressività, calma o addirittura soggezione vengono immediatamente suggeriti a
chi ci sta di fronte causando, immediatamente, una serie di reazioni
psicologiche.
Il
nostro comportamento produce, dunque, messaggi ai quali verrà data risposta dal
comportamento di chi ci sta davanti: controllare i messaggi che mandiamo
significa quindi controllare le reazioni degli altri o, per dirla in termini
aikidoistici prendere il Ki dell’altro.
Possiamo
provocarli, intimorirli o placarli. Nulla di particolarmente nuovo sotto il
sole, si potrebbe pensare. Ma cosa accade in noi se al nostro kamae e al nostro
shisei leghiamo l’attività mentale del pieno rilassamento e della non
competizione?
Questa
è una ipotesi per tentare di spiegare da un’altra prospettiva perché in Aikido
non si utilizzano guardie aggressive, perché lo sguardo deve restare rilassato
e attraversare l’altro mantenendo il
fuoco dell’attenzione diffuso, perché è importante mantenere una postura
distesa, eretta e naturale.
Stiamo
evidentemente comunicando, e il nostro messaggio è: “non sono un nemico, non
sei il mio nemico”. E se questa idea si lega profondamente a questi elementi
posturali anche sotto lo stress e la concitazione dell’attacco o degli attacchi
la nostra mente produrrà l’unità significativa : “non sono il nemico, non sei
il mio nemico”. Uno spazio di pace in noi che diventa una naturale disposizione
coltivata attraverso l’unità mente corpo. Un messaggio che può ancorarsi
profondamente solo attraverso uno studio profondo e attento della postura e la
consapevolezza delle emozioni che proviamo quando assumiamo un determinato
kamae.
Entra
qui in gioco il terzo elemento del trittico di base, l’ultima submodalità
originaria che fonda ogni ulteriore progresso nell’Aiki: il kokyu, il respiro.
La
respirazione è notoriamente legata alle emozioni e da esse alterata. A sua
volta ha la capacità di influenzare le emozioni e di alterarle. Aumenta in
frequenza e si accorcia in lunghezza quando le emozioni si eccitano e
diminuisce e si approfondisce quando si calmano. Attraverso la consapevolezza
del respiro possiamo essere consapevoli delle nostre emozioni. Così shisei, kamae
e kokyu chiudono un cerchio ideale. Attraverso il respiro coltiviamo emozioni
non distruttive, attraverso la postura le ancoriamo alla nostra psiche e
attraverso il kamae le proponiamo al mondo, ovvero all’altro. Quando questo
circolo diventa virtuoso e ben consapevolizzato il solo prendere la postura
produrrà pace in noi, proporrà pace all’altro e creerà le basi per l’Aiki.
Paolo Narciso
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