giovedì 16 aprile 2015

UN TATAMI NELLA BIBBIA

Passeggiando tra le parole dei filosofi, di tanto in tanto, ci si imbatte in paesaggi di straordinaria forza evocativa. Se è vero che la poesia, quella alta, quella che tuona dentro l’anima, ci permette di scoprire la magia della parola, è per me altrettanto vero che la filosofia ci permette di assaporarne la chiarezza. Quando tutto questo capita attraverso gli scritti di coloro che sono, nel tempo, assai lontani da noi, allora la meraviglia per me è, se possibile, ancora più grande. La meraviglia nel trovare attualità nel passato, la meraviglia di scoprire che nel pensiero umano, a differenza che nelle scienze positive, quasi tutto si amplia ma ben poco si supera. E questo è rassicurante, radicante direi.
E dunque, camminando nel fitto bosco di carta di un testo di esegesi biblica scritto più di 20 secoli fa, mi sono imbattuto per caso in un tatami e in un dojo e ho ritenuto che questa cosa fosse così singolare, per molti motivi, da meritare qualche riga di condivisione.
Il testo in questione, “le origini del male” è di un greco, di cultura ebraica, nato circa il 20 a.C. e morto, sempre circa, il 45 d.C. , Filone di Alessandria. Un individuo che mi ha sempre affascinato perché entre deux, come direbbero i francesi, ovvero a cavallo tra, come diremmo noi. E la cosa ovviamente mi piace non poco. A cavallo tra due culture (ellenica e ebraica) e proprio a gambe larghe sopra la più importante delle cesure della storia, quella segnata dalla nascita di Gesù il Nazareno. Non ci posso fare nulla, tutto ciò che è complesso, meticcio e amalgamato mi fa diventare curioso e mi richiama come le sirene ad Ulisse. E non ho intenzione di legarmi ad alcun albero maestro per resistere. Quindi mi lancio e, a costo di essere divorato dall’impresa, vi racconto questo strano, paradossale incontro.

Il testo raccoglie alcune tra le innumerevoli esegesi del testo biblico scritte dal filosofo alessandrino e tra esse una è dedicata a Caino e Abele. La storia, più o meno, la conoscete tutti: Caino cattivo cattivo, Abele buono, quasi un idiota, Caino geloso, Abele morto. In sintesi. Ma a Filone le sintesi non piacevano affatto. Al contrario, doveva essere un individuo dotato di una curiosità fuori del comune dato che ogni singola parola del testo biblico per lui era un come fosse un intero libro da sfogliare e capire a fondo. Chissà come si confronterebbe oggi con l’era degli sms e degli emoticon… credo avrebbe una seria crisi depressiva, ma questo è altro argomento. Non perdiamoci.
Filone, dicevo, è curioso. Nulla per lui ha il significato che appare, tutto nasconde in sé un messaggio più alto. Soprattutto quando quel “tutto” è sacro come la parola del Libro. Non ci ricorda qualcosa, a noi aikidoka, riguardo al non restare solo su ciò che si vede con gli occhi? Beh, a me sì… ma ricomincio a divagare, perdonatemi. Dunque, ad un certo punto Filone affronta la storia di Caino e Abele e comincia citando le Scritture:

“E Caino disse a suo fratello Abele: Andiamo nella pianura. E quando si ritrovarono nella pianura, Caino sollevò la mano contro Abele suo fratello e l’uccise”. (Gen. 4, 8)

E quindi? Direte voi. So che posso sembrare un fanatico religioso o peggio…ma vi chiedo di essere gentili e darmi credito ancora per un po’.
Filone comincia l’esegesi del testo con queste parole: “ L’intenzione di Caino è quella di sfidare Abele e di indurlo a discutere con la forza di sofismi speciosi e persuasivi. La pianura, infatti, nella quale lo spinge a recarsi, non è che il simbolo, diciamo noi, del duello e del combattimento. Noi vediamo, infatti, che, sia in guerra che in pace, la maggior parte dei combattimenti si realizzano in luoghi pianeggianti: in tempo di pace, si sa, quelli che affrontano gare sportive cercano stadi e pianori spaziosi, ed in tempo di guerra si usa combattere, sia a piedi sia a cavallo, non certo sulle colline, giacché i danni che possono derivare dalla sfavorevole configurazione del terreno sono più grandi di quelli che i nemici si infliggono reciprocamente nel conflitto frontale”.

Ecco alcuni elementi che emergono e che mi sembrano più che rilevanti circa la nostra Arte e, ancor più, circa le dinamiche umane di coloro che la praticano. Evidentemente la pianura altro non è che il nostro tatami, difatti, più volte, mi è sembrato chiaro che tutta la nostra pratica è una simulazione alleggerita il più possibile dagli elementi di imprevedibilità che sono propri delle situazioni di conflitto che si possono subire quando ci si trovi coinvolti in situazioni violente. Tutta la nostra pratica, compreso il luogo della pratica: morbido, antiscivolo, senza irregolarità. In una parola: una pianura.
Ci si potrebbe chiedere se questa semplice assonanza tra pianura e tatami giustifichi tutte queste parole (inutili…?). Bene, la risposta è ovviamente no. E quindi, a meno che lo scopo non sia di annoiarvi, c’è di più.
Nell’esegesi di Filone, Caino ha molti significati. Il primo di questi è il sofista ovvero colui che promulga una falsa verità dichiarandola autentica attraverso ragionamenti contorti e fuorvianti. La pianura è il terreno di scontro tra verità e non verità, tra scienza e ignoranza. Lo scontro è tra l’irrazionalità, ovvero le passioni, i ragionamenti fallaci che nutrono l’io e soprattutto la convinzione di detenere una verità morale e ideologica che nell’essenza è solo ideologia e quindi tende a esprimere e legittimare una espressione politica e di potere, ovvero Caino, e la ragione, Abele,  che è in noi, ovvero una moralità propria dell’anima in quanto tale . E’ in ultima analisi il luogo dell’educazione, un luogo nel quale non si scende a compromessi con le passioni ma queste ultime devono essere piegate al prezzo di una dura fatica.

Non vi viene in mente proprio nulla? Ci ho messo un po’ anche io ma ad un certo punto un parallelo con più livelli della mia vita di aikidoka è emerso.
Un primo livello è quello della nostra mente all’inizio, e non solo, della pratica. Entriamo sul tatami, ovvero nella pianura, invitati il più delle volte da spinte egoiche molto forti. Autoaffermazione, desiderio di diventare più forti, più capaci, di poter vincere il nemico. Entriamo pieni di sofismi su cosa sia un’arte marziale, cosa sia lo scontro e cosa sia l’efficacia e la vittoria. Inevitabilmente nella pianura, che ce ne rendiamo conto o meno, insieme a Caino entra anche Abele: una spinta verso qualcosa di altro, qualcosa di più alto. In fondo avevamo molte altre possibilità ma qualcosa ci ha chiamato su un tatami piuttosto che su un ring. Caino e Abele cominciano in noi una difficile discussione fatta di un dialogo interno noto a molti praticanti: “E’ efficace? Funziona? E’ la “vera” via? A questo dialogo Caino partecipa da una parte con una sfiducia continua verso tutto ciò che lo disconferma e dall’altra con un rafforzamento progressivo delle proprie convinzioni sul vero e sul giusto. Abele invece resta vittima apparente, innocente, disponibile ma indifesa (almeno così pare!). Filone assimila Dio alla consapevolezza, e Abele ha Dio con sé ovvero la parte più “debole” di noi, quella che rifiuta l’idea dello scontro ha in sé una grande forza silenziosa: la consapevolezza.

Un secondo livello ha a che fare con un’altra interpretazione di Caino: l’amore di sé.
Dato per compreso che la pianura simboleggia il conflitto, Abele rappresenta la dottrina dell’amore, Caino la dottrina dell’amore di sé. I promotori di quest’ultima dottrina hanno assai spesso notevoli abilità oratorie con le quali assai di frequente riescono a far apparire ragionevole e appagante, a mezzo di artificiosi argomenti, la via della soddisfazione dei piaceri e del corpo. In ultima analisi la via dell’ego.
Dalla propria Caino ha una falsa forza derivata dalla apparente debolezza di Abele che rifiuta di scontrarsi e di rafforzarsi sul piano dialettico per vincere a tutti i costi. Una forza falsa perché fratricida.

E qui non posso non pensare a tutti coloro che riempiono la pratica di parole e di idee che servono solo a rafforzare il proprio ego, a tutti quelli che portano avanti delle bandiere e dividono il mondo dell’aiki in scuole, fazioni o peggio, sette. Non posso non pensare ai tanti che continuano a vedere nell’altro un nemico sul quale vincere sia sul tatami che fuori, sia tecnicamente che dialetticamente. E, insieme, penso a quanti, invece, non vogliono scendere a questo livello e non accettano di ridurre la ricerca del senso della pratica ad una bagarre intellettuale o, peggio, tecnica.

Il tatami può diventare il luogo della coltivazione dell’ego, dove tutto ciò che è diverso o difforme dalla propria idea viene attaccato, ridicolizzato o peggio ancora distrutto. Al contrario, la pianura nella quale ci incontriamo con l’altro si trasforma in luogo dove pascolare un gregge pacifico solo se capiamo che il campo di battaglia deve essere trovato dentro di noi.

Vale la pena concludere con alcune considerazioni sul prosieguo della storia  che presenta alcuni aspetti interessanti e forse poco noti. Il primo aspetto è che Abele, nel testo biblico, non muore affatto.  Dio, la consapevolezza, chiede a Caino “Dov’è Abele?”, “non lo so” risponde quest’ultimo. Ora... che Dio onniscente non sappia dove è Abele è cosa impensabile, evidentemente la domanda ha un tono provocatorio e può essere letta così: “perché ti sei mutilato? Dov’è finita la purezza che era in te?”. Ovvero, a forza di coltivare l’ego, l’essere umano perde quella capacità di riconoscere un bene più alto nelle proprie scelte e nelle proprie azioni, uccide la possibilità di tendere verso una morale più alta. E infatti Caino dice, mentendo, “Non lo so!” e aggiunge “ sono forse il custode di mio fratello io?” Seguitemi nella metafora, è come se dicesse “sono forse io a dovermi occupare di queste cose?” Aikidoisticamente suona come: “chi se ne frega dell’armonia se quest’ultima mi fa sembrare debole o vulnerabile. E chi se ne frega anche di Uke…sono forse io che mi devo occupare di lui?”
Ma, l’altro aspetto interessante è che Dio dice “Che hai fatto? La voce di tuo fratello mi giunge dal suolo insanguinato, ora sii maledetto, lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lo lavorerai non ti darà più i suoi prodotti…”
Concedetemi ancora di seguire Filone nella sua esegesi. Egli nota che Abele non è dunque affatto morto, se grida verso Dio dal suolo. Tutto il passaggio è un monito alla parte di noi che vuole prevalere a tutti i costi, sia contro ciò che ci spinge verso l’armonia, sia contro tutti coloro che minacciano la nostra egoica volontà di potenza. Ciò che incontriamo in questo modo è solo il tormento di quello che abbiamo tentato di uccidere e che invoca a gran voce la nostra consapevolezza. E la “punizione” è che nessun tatami darà più il frutto che gli è proprio, anche se lo coltiveremo con ogni sforzo possibile.
Evidentemente la nostra pratica si conclude nel momento in cui decidiamo di uccidere Abele dentro di noi e di usare violenza alla Via per aggiogarla alle nostre esigenze.
Ma il monito non finisce qui, Dio dice :”Però chiunque ti ucciderà subirà la vendetta sette volte”. Il che significa sia che non abbiamo il diritto di interferire con coloro che decidono di seguire la Via in modo egoico (non diventeremmo forse come loro in questo giudicarli?) , sia che non dobbiamo uccidere questa dualità in noi stessi. D’altra parte l’armonia non può avvenire senza opposti da armonizzare. E non è forse quello che l’Aiki ci chiede?



sabato 28 marzo 2015

KATATEDORI: IL GRANDE INCOMPRESO OVVERO QUANDO PRENDERSI I POLSI E’ MOLTO PIU’ CHE PRENDERSI I POLSI.


L'esperienza visiva dello spazio non è l'unica possibile, ad essa si aggiunge, tra le altre, quella cinestetica, ovvero la percezione fisica del movimento (kynos=movimento aistesis=sensazione). I più antichi disegnatori di giardini giapponesi possedevano una grande consapevolezza di questo modo di percepire lo spazio attraverso i ricettori immediati, ovvero pelle e muscoli. Hall (La dimensione nascosta, op.cit.) ci conferma: ”Mancando i grandi spazi aperti, e vivendo a stretto contatto, i giapponesi impararono a sfruttare al massimo i piccoli spazi.
I loro giardini non sono disegnati solo per essere guardati con gli occhi: L’esperienza di passeggiare in un giardino giapponese comprende una gamma insolitamente ricca di sensazioni muscolari. Il visitatore è costretto di volta in volta a guardare dove mette i piedi, avanzando cautamente per un cammino fatto di sassi irregolarmente intervallati attraverso un laghetto. Anche i muscoli del collo vengono messi deliberatamente in gioco. Il visitatore deve levare prontamente lo sguardo, arrestandosi per un momento a cogliere la prospettiva fuggevole di un paesaggio, che svanisce quando muove il piede verso un altro appoggio." (HALL, op.cit. pp.75,75). Queste considerazioni ci inducono a considerare, ancora una volta, lo spazio e la prospettiva come MA ovvero intervallo tra i corpi e realtà tridimensionale di cui si fa esperienza anche muscolare. Il cambio di prospettiva determinato da uno spostamento (e quindi da un lavoro muscolare) ci regala una sensazione nuova dello spazio, una sensazione fisica che ignoriamo quando lo consideriamo solo distanza che separa gli oggetti. Lo spazio che è tra i corpi non è una realtà indifferenziata e indeterminata, ma caratterizzata da qualità specifiche.

Molti di noi sono abituati a dare rilevanza solo alla percezione che si determina attraverso i ricettori a distanza (occhi, orecchie e naso) e a trascurare quello spazio, pur esistente, che percepisce il caldo ed il freddo. Questo spazio termico è determinante per la nostra sopravvivenza tanto quanto lo spazio che copriamo con i ricettori a lunga distanza: la gente gelerebbe d’inverno o collasserebbe per il caldod’estate se non percepisse nettamente e distintamente caldo e freddo.

Non conviene soffermarsi troppo sull’importanza dello spazio termico, è appena il caso di notare, comunque, che rabbia, desiderio e molte altre emozioni variano il calore corporeo e che attraverso i segnali termici mandiamo e riceviamo moltissime informazioni, alcune delle quali causano reazioni nell'altro. Il controllo del proprio stato emotivo predicato dall’Aikido, trova una sua possibile spiegazione in questo: quando ci arrabbiamo la temperatura corporea aumenta e chi ci è vicino può percepire questa variazione in tre modi distinti. Visivamente, a causa dell'arrossamento della pelle nei luoghi dove v’è una maggiore presenza di capillari (ad esempio le guance), olfattivamente perché con il calore l'odore del corpo aumenta di intensità, e mediante la sensibilità
termica della pelle. Questi segnali scatenano reazioni inconsce offensive o difensive in chi li riceve, a seconda che sia aggressivo o remissivo di indole. Il calore corporeo è qualcosa di altamente personale , ed evoca nel nostro spirito idee di intimità e di esperienze dell’infanzia. Molte persone, e di diverse culture, seguono il principio del non contatto (cioè evitano di toccare estranei). È comune il senso di fastidio che si prova nel sedersi su poltrone imbottite appena lasciate da un estraneo.

Hall riferisce che è comune nei sottomarini militari; che l’equipaggio si lamenti per il caldo delle cuccette, dovuto alla pratica di dividersi la stessa cuccetta a seconda dei turni di lavoro. Non si sa perché il proprio calore non desti ripugnanza, e quello di un estraneo invece si: ipotesi scientifiche
identificano la causa nella estrema sensibilità per le piccole differenze di temperatura. Sembra che l'uomo reagisca negativamente ad una temperatura non familiare.

Nella pratica dell’Aikido mi è capitato spesso di scorgere espressioni di imbarazzo, e talvolta difastidio, nei nuovi praticanti quando per lavorare era necessario afferrare l’altro o toccarlo.
Ancora molto è da scoprire circa lo spazio termico e lo spazio tattile. Ciò che è stato chiaramente determinato attraverso la ricerca scientifica è che le esperienze visive e tattili sono così strettamente intrecciate da non poter essere naturalmente disgiunte. Come per i bambini debbono passare molti anni perché si arrivi a subordinare il mondo tattile a quello visivo (essi, come è noto, toccano, manipolano e assaggiano tutto), così nell’Aikido l'esperienza della pratica attraverso il contatto (Katate-dori) costituisce un passaggio fondamentale ed imprescindibile. E non a caso il lavoro attraverso “dori”, la presa di un distretto corporeo dell’altro, è il primo passaggio didattico che permette di introdurre la complessità tecnica.
La presa deve essere solida (anche se non eccessivamente vincolante) e restituire una sensazione di pieno contatto e connessione. In altri termini è un attivatore del mondo sensoriale tattile e termico. Esattamente le prime sensazioni che sviluppiamo da piccolissimi quando siamo ancora incapaci di utilizzare gli altri sensi e il contatto e il calore del corpo di nostra madre ci comunicano le prime informazioni di connssione.
Man mano che la pratica avanza la comunicazione diventa sempre più complessa e meno tattile, esattamente come accade nello sviluppo delle facoltà comunicative dell’individuo che passa dal gesto alla parola e dalla parola alla comunicazione simbolica. Ma questo è argomento complesso che merita una trattazione a sé.

 Vorrei invece aggiungere alcune considerazioni sul rapporto tra senso del tatto e vista. Lo psicologo James Gibson ha studiato approfonditamente i rapporti tra vista e tatto. Egli sostiene che se noi li concepiamo come due canali d’informazione, attraverso i quali il soggetto esplora e scandaglia attivamente con una collaborazione tra i sensi, il flusso unitario delle impressioni sensoriali ne verrà rinforzato e quindi anche la nostra capacità di percepire (e questo va a supporto della tesi che lavorare in Katatedori aumenta la sensibilità).
Gibson distingue, inoltre, tra tatto attivo (sonda tattile, nella fattispecie Uke che attivamente propone la presa) e tatto passivo (l 'essere toccato, ovvero Tori che riceve la presa e quindi anche il contatto) e afferma che le due esperienze coinvolgono in modo diverso i protagonisti. Facendo lavorare zone diverse del cervello.  Questo ci permette di comprendere che nella pratica Tori e Uke fanno ambedue una esperienza strutturale e che le due esperienze sono complementari e sviluppano la totalità dei livelli di percezione spaziale:

a)percezione visiva, ovvero la visione globale dell'altro nell'atto di avvicinarsi e di afferrare il polso.

b) percezione tattile, ovvero la percezione del contatto della presa

c) percezione termica, ovvero la sensazione termica che si avverte nel contatto

d)percezione cinestetica, ovvero la percezione del lavoro muscolare del nostro corpo nel ricevere la presa e della mano dell’altro nell’atto di afferrarci e di imprimere una forza

Il mondo visivo è una sintesi di tutte queste percezioni. Gibson scrive: “muovendosi attraverso lo spazio, l’uomo organizza e consolida il suo mondo visivo, avvalendosi dei messaggi che egli riceve da tutto il corpo”. Il coinvolgimento delle esperienze sensoriali e cinestetiche di tutto il corpo determina una vera e propria “creazione del proprio mondo visivo”. Una montagna non ha più lo stesso aspetto di prima agli occhi di chi l'ha scalata. Chiunque pratichi assiduamente sa che alcune cose che i Sensei mostrano si vedono solo dopo aver fatto esperienza come loro uke. Guardare una tecnica dopo averla subita è una esperienza completamente nuova.

Lavorare in katatedori ci insegna ad associare e armonizzare, fino a sintetizzare, le varie percezioni, rendendo chiaro l’uso dello spazio (MA). Inoltre il contatto fisico agevola l'apertura verso l'altro, il diverso, lo sconosciuto, aiutando il praticante a superare l'istintiva barriera psicologica nei confronti dell'invasione del proprio spazio privato L'unico modo per raggiungere questo risultato è accettare la presa come un'occasione per rendersi coscienti attraverso l'altro, unificando le proprie percezioni, rifiutando l'idea del conflitto e del confronto che inevitabilmente porterebbe ad un irrigidimento e ad una perdita della sensibilità.

Le perplessità su questo tipo di allenamento derivano da una erronea interpretazione di ciò che si sta facendo. L'evidente improbabilità di essere attaccati da un avversario che ci blocca un polso spinge molti praticanti, soprattutto all'inizio, a ritenere questa pratica inutile e tediosa. Per la verità questo tipo di allenamento ha una sua validità anche dal punto di vista del combattimento, tuttavia ritengo che i maggiori benefici avvengano per il corpo e per le sue percezioni. 
Il contatto con l'altro ci permette di determinare una condizione del tutto nuova: il nostro apparato propriocettivo, ovvero quello formato da un particolare tipo di nervi chiamati, appunto, propriocettori, che tengono l'uomo informato su ciò che avviene dentro di sè quando mette in azione le catene muscolari e l'apparato esterocettore, ovvero l'insieme dei nervi che trasmettono le sensazioni termiche, tattili e dolorose al sistema nervoso centrale, si unificano rinforzando nettamente la nostra percezione cinestetica. Inoltre, l'altro contribuisce a modificare le nostre percezioni e agendo su di noi attraverso lo spazio ed il contatto ci fornisce moltissime informazioni che passano immediatamente attraverso il nostro sistema sensoriale periferico. Da questa condizione è possibile trasformare il rapporto e unificare la propria intenzione con quella dell'altro. Questo nella pratica si chiama KI MUSUBI e costituisce la porta per un livello di relazione assai più ampio e complesso, livello che rimane ignoto a coloro che si ostinano a cercare l’efficacia piuttosto che cercare se stessi.


Paolo Narciso

INCONTRI, DISTANZE, SALUTI E POSIZIONE: SOLO UNA QUESTIONE DI ETICHETTA? FORSE NO…

La cosa che mi preme rimarcare è che la condizione naturale, inconscia dell'essere umano coincide perfettamente con quanto viene insegnato quando si spiega la postura di Hamni.
Interviene, quindi, una condizione innaturale, o forzata, nell'esatto momento in cui la posizione faccia a faccia viene interpretata come un confronto o una sfida.

Ancora una volta: la posizione è comportamento e la nostra intenzione si rivela immediatamente attraverso i messaggi non verbali che il nostro corpo comunica.

Un'altra notazione interessante deriva dallo studio delle diadi e dei gruppi. Per diade si intende una unità relazionale composta da due individui in conformità allo spazio che li circonda. Più semplicemente, quando si studia una diade si pone l'attenzione sui comportamenti che due persone intraprendono in relazione al loro rapporto ed al rapporto con lo spazio circostante. Questa è la dinamica standard di tale incontro, così come si è determinata dall'osservazione scientifica di centinaia di casi: due persone si riconoscono a distanza e si scambiano un saluto, poi camminano l'una verso
l’altra. Ad una distanza interpersonale consueta si fermano, si salutano di nuovo e assumono posizioni frontale ma non di fronteggiamento (Kendon e Ferber, 1970).

In alcuni casi la distanza si accorcia per stringersi la mano e abbracciarsi ma poi i due si porranno ad una distanza che si inserisce in una di due zone principali (Hall, La dimensione nascosta,pp.l52-172 dove approfondisce l’argomento inserendo altre due zone: la distanza sociale e la distanza pubblica che per brevità trascureremo).

a)Distanza informale o intima: normalmente inferiore a un metro e venti entro la portata tattile.

b)Distanza formale: da un metro e venti a due metri circa, ossia fuori della portata tattile.

La dinamica ricalca in modo straordinario ciò che accade quando due praticanti si accingono a lavorare insieme, Si guardano (riconoscimento reciproco) si salutano, si avvicinano, si salutano di nuovo e assumono la posizione di Hamni. Tale dinamica è ancora più evidente nello studio tradizionale delle armi (particolamiente nelle scuole di spada) dove il saluto è ritualizzato e si scandisce in forme e modi molto simili a quelle descritte dall’osservazione scientifica.
Se il rapporto è esclusivo tra due persone e  ha una sufficiente intimità (parenti, amici etc) i partecipanti assumeranno una posizione frontale (sempre non di fronteggiamento quindi non totalmente frontale). Se, al contrario, sono soltanto conoscenti o non sono coinvolti in un rapporto esclusivo, si porranno secondo un certo angolo, fino a 90 gradi di divergenza dalla posizione frontale. Superfluo a questo punto dire che la posizione di  ricalca perfettamente l'attitudine naturale e inconscia che si determina quando si è di fronte a sconosciuti o la transazione coinvolge più di due partecipanti (l'Aikido è dichiaratamente pensato per lavorare su più fronti e con più uke contemporaneamente).

Ogni subunità di cui è composta la posizione hanmi completa e bilancia il messaggio non verbale. La testa ed il busto eretti e sostenuti dalla colonna vertebrale esprimono un'attitudine non remissiva, priva di sottomissione all'altro. Lo sguardo, concentrato nell'area guancia spalla, oltre a permettere un’immediata identificazione dei movimenti attraverso l'uso della visione periferica, non induce alla lotta e non attiva reazioni psicologiche di aggressività. Le spalle centrate e rilassate non esprimono stati emotivi di paura o difesa, stati che possono autorizzare l'altro all'aggressione.
L'orientamento a 45 gradi del corpo determina immediatamente l'uso dello spazio informale (maggiore di un metro e venti) e induce l'altro a mantenerlo. Inoltre comunica l’apertura verso altre transazioni (comunica quindi all’altro: “tu sei il mio oggetto elettivo ma non esclusivo di attenzione “).
La posizione delle mani, al margine inferiore del campo visivo periferico dell'altro, non costituisce una barriera psicologica, non esprime aggressività e non invita al conflitto (circa il gestire con le mani e i messaggi simbolici diremo oltre).
La direzione del piede avanzato mantiene l’orientamento della transazione verso il partecipante alla relazione che sta immediatamente davanti,  aprendo leggermente verso l’esterno,  sia per non vincolare l'anca, sia per suggerire uno spazio più ampio e meno direzionato e quindi meno aggressivo. Il busto o la testa possono liberamente orientarsi verso altri partecipanti all’incontro.

Questa possibilità viene naturalmente ed inconsciamente utilizzata nel comportamento umano durante tutte le relazioni.

L'osservazione scientifica ha mostrato che la posizione del corpo può organizzare più orientamenti simultanei per determinare gerarchie complesse di relazioni.
A tale proposito Sheflen scrive: "una persona che parla si porrà e orienterà il proprio corpo verso un’altra persona o qualche gruppo e mentre conserva questo orientamento corporeo basilare può impiegare la testa, gli occhi e
la parola in una sequenza di unità puntuali e lessicali. Può usare la parte superiore del corpo nell'esecuzione di un compito oppure può semplicemente orientare le gambe e/o la parte superiore del corpo verso qualche persona o sottogruppo mentre muove la testa da un ascoltatore ad un altro."

Ciascuna subunità, all'intemo di una posizione di base, può autonomamente orientare l'intenzione di comunicare o aprire una comunicazione, permettendo di mantenere una serie complessa di rapporti.
Tale serie è, inoltre, gerarchicamente organizzabile: a seconda della distanza a cui si trova il partecipante che si vuole coinvolgere nel rapporto e del grado di coinvolgimento, in modo inconscio e naturale si utilizzeranno determinate subunità (testa, occhi, mani,etc.)

Ne deriva che Hanmi è la posizione naturale ed istintiva che assumiamo quando ci troviamo in una relazione faccia a faccia con un altro di cui non conosciamo le intenzioni, ma verso il quale non nutriamo sentimenti di paura o di aggressività. È, inoltre, una condizione di totale apertura anche verso altri partecipanti, di parità e rispetto, essendo priva di input aggressivi o di autorizzazioni all'aggressione.

Scheflen scrive: “Il rapporto faccia a faccia indica e limita i tipi di attività umana che possono avverarsi e i rapporti di postura, orientamento e distanza indicano il coinvolgimento, l’intimità e il tipo di associazione dei partecipanti” (Scheflen, Il linguaggio del comportamento, p.59).

In linea con ciò, e come elemento aggiuntivo di complessità relazionale, l'Aikido forza i partecipanti a violare lo spazio intimo attraverso il contatto fisico, afferrando il polso, la spalla, il gomito dell’altro. Questa “violazione” dello spazio intimo e privato, insieme al contatto fisico, causa reazioni psicologicamente rilevanti.

Su tali reazioni, sulla loro consapevolezza e gestione, si gioca la partita tra la possibilità di incontrare l’altro e quella di iniziare uno scontro. Per permettere l’incontro è necessario aver coltivato uno spazio di pace ben prima che la violazione dello spazio fisico avvenga. (Vedi ol mio articolo su Shisei, Kamae e Kokyu)


Paolo Narciso