sabato 28 marzo 2015

KATATEDORI: IL GRANDE INCOMPRESO OVVERO QUANDO PRENDERSI I POLSI E’ MOLTO PIU’ CHE PRENDERSI I POLSI.


L'esperienza visiva dello spazio non è l'unica possibile, ad essa si aggiunge, tra le altre, quella cinestetica, ovvero la percezione fisica del movimento (kynos=movimento aistesis=sensazione). I più antichi disegnatori di giardini giapponesi possedevano una grande consapevolezza di questo modo di percepire lo spazio attraverso i ricettori immediati, ovvero pelle e muscoli. Hall (La dimensione nascosta, op.cit.) ci conferma: ”Mancando i grandi spazi aperti, e vivendo a stretto contatto, i giapponesi impararono a sfruttare al massimo i piccoli spazi.
I loro giardini non sono disegnati solo per essere guardati con gli occhi: L’esperienza di passeggiare in un giardino giapponese comprende una gamma insolitamente ricca di sensazioni muscolari. Il visitatore è costretto di volta in volta a guardare dove mette i piedi, avanzando cautamente per un cammino fatto di sassi irregolarmente intervallati attraverso un laghetto. Anche i muscoli del collo vengono messi deliberatamente in gioco. Il visitatore deve levare prontamente lo sguardo, arrestandosi per un momento a cogliere la prospettiva fuggevole di un paesaggio, che svanisce quando muove il piede verso un altro appoggio." (HALL, op.cit. pp.75,75). Queste considerazioni ci inducono a considerare, ancora una volta, lo spazio e la prospettiva come MA ovvero intervallo tra i corpi e realtà tridimensionale di cui si fa esperienza anche muscolare. Il cambio di prospettiva determinato da uno spostamento (e quindi da un lavoro muscolare) ci regala una sensazione nuova dello spazio, una sensazione fisica che ignoriamo quando lo consideriamo solo distanza che separa gli oggetti. Lo spazio che è tra i corpi non è una realtà indifferenziata e indeterminata, ma caratterizzata da qualità specifiche.

Molti di noi sono abituati a dare rilevanza solo alla percezione che si determina attraverso i ricettori a distanza (occhi, orecchie e naso) e a trascurare quello spazio, pur esistente, che percepisce il caldo ed il freddo. Questo spazio termico è determinante per la nostra sopravvivenza tanto quanto lo spazio che copriamo con i ricettori a lunga distanza: la gente gelerebbe d’inverno o collasserebbe per il caldod’estate se non percepisse nettamente e distintamente caldo e freddo.

Non conviene soffermarsi troppo sull’importanza dello spazio termico, è appena il caso di notare, comunque, che rabbia, desiderio e molte altre emozioni variano il calore corporeo e che attraverso i segnali termici mandiamo e riceviamo moltissime informazioni, alcune delle quali causano reazioni nell'altro. Il controllo del proprio stato emotivo predicato dall’Aikido, trova una sua possibile spiegazione in questo: quando ci arrabbiamo la temperatura corporea aumenta e chi ci è vicino può percepire questa variazione in tre modi distinti. Visivamente, a causa dell'arrossamento della pelle nei luoghi dove v’è una maggiore presenza di capillari (ad esempio le guance), olfattivamente perché con il calore l'odore del corpo aumenta di intensità, e mediante la sensibilità
termica della pelle. Questi segnali scatenano reazioni inconsce offensive o difensive in chi li riceve, a seconda che sia aggressivo o remissivo di indole. Il calore corporeo è qualcosa di altamente personale , ed evoca nel nostro spirito idee di intimità e di esperienze dell’infanzia. Molte persone, e di diverse culture, seguono il principio del non contatto (cioè evitano di toccare estranei). È comune il senso di fastidio che si prova nel sedersi su poltrone imbottite appena lasciate da un estraneo.

Hall riferisce che è comune nei sottomarini militari; che l’equipaggio si lamenti per il caldo delle cuccette, dovuto alla pratica di dividersi la stessa cuccetta a seconda dei turni di lavoro. Non si sa perché il proprio calore non desti ripugnanza, e quello di un estraneo invece si: ipotesi scientifiche
identificano la causa nella estrema sensibilità per le piccole differenze di temperatura. Sembra che l'uomo reagisca negativamente ad una temperatura non familiare.

Nella pratica dell’Aikido mi è capitato spesso di scorgere espressioni di imbarazzo, e talvolta difastidio, nei nuovi praticanti quando per lavorare era necessario afferrare l’altro o toccarlo.
Ancora molto è da scoprire circa lo spazio termico e lo spazio tattile. Ciò che è stato chiaramente determinato attraverso la ricerca scientifica è che le esperienze visive e tattili sono così strettamente intrecciate da non poter essere naturalmente disgiunte. Come per i bambini debbono passare molti anni perché si arrivi a subordinare il mondo tattile a quello visivo (essi, come è noto, toccano, manipolano e assaggiano tutto), così nell’Aikido l'esperienza della pratica attraverso il contatto (Katate-dori) costituisce un passaggio fondamentale ed imprescindibile. E non a caso il lavoro attraverso “dori”, la presa di un distretto corporeo dell’altro, è il primo passaggio didattico che permette di introdurre la complessità tecnica.
La presa deve essere solida (anche se non eccessivamente vincolante) e restituire una sensazione di pieno contatto e connessione. In altri termini è un attivatore del mondo sensoriale tattile e termico. Esattamente le prime sensazioni che sviluppiamo da piccolissimi quando siamo ancora incapaci di utilizzare gli altri sensi e il contatto e il calore del corpo di nostra madre ci comunicano le prime informazioni di connssione.
Man mano che la pratica avanza la comunicazione diventa sempre più complessa e meno tattile, esattamente come accade nello sviluppo delle facoltà comunicative dell’individuo che passa dal gesto alla parola e dalla parola alla comunicazione simbolica. Ma questo è argomento complesso che merita una trattazione a sé.

 Vorrei invece aggiungere alcune considerazioni sul rapporto tra senso del tatto e vista. Lo psicologo James Gibson ha studiato approfonditamente i rapporti tra vista e tatto. Egli sostiene che se noi li concepiamo come due canali d’informazione, attraverso i quali il soggetto esplora e scandaglia attivamente con una collaborazione tra i sensi, il flusso unitario delle impressioni sensoriali ne verrà rinforzato e quindi anche la nostra capacità di percepire (e questo va a supporto della tesi che lavorare in Katatedori aumenta la sensibilità).
Gibson distingue, inoltre, tra tatto attivo (sonda tattile, nella fattispecie Uke che attivamente propone la presa) e tatto passivo (l 'essere toccato, ovvero Tori che riceve la presa e quindi anche il contatto) e afferma che le due esperienze coinvolgono in modo diverso i protagonisti. Facendo lavorare zone diverse del cervello.  Questo ci permette di comprendere che nella pratica Tori e Uke fanno ambedue una esperienza strutturale e che le due esperienze sono complementari e sviluppano la totalità dei livelli di percezione spaziale:

a)percezione visiva, ovvero la visione globale dell'altro nell'atto di avvicinarsi e di afferrare il polso.

b) percezione tattile, ovvero la percezione del contatto della presa

c) percezione termica, ovvero la sensazione termica che si avverte nel contatto

d)percezione cinestetica, ovvero la percezione del lavoro muscolare del nostro corpo nel ricevere la presa e della mano dell’altro nell’atto di afferrarci e di imprimere una forza

Il mondo visivo è una sintesi di tutte queste percezioni. Gibson scrive: “muovendosi attraverso lo spazio, l’uomo organizza e consolida il suo mondo visivo, avvalendosi dei messaggi che egli riceve da tutto il corpo”. Il coinvolgimento delle esperienze sensoriali e cinestetiche di tutto il corpo determina una vera e propria “creazione del proprio mondo visivo”. Una montagna non ha più lo stesso aspetto di prima agli occhi di chi l'ha scalata. Chiunque pratichi assiduamente sa che alcune cose che i Sensei mostrano si vedono solo dopo aver fatto esperienza come loro uke. Guardare una tecnica dopo averla subita è una esperienza completamente nuova.

Lavorare in katatedori ci insegna ad associare e armonizzare, fino a sintetizzare, le varie percezioni, rendendo chiaro l’uso dello spazio (MA). Inoltre il contatto fisico agevola l'apertura verso l'altro, il diverso, lo sconosciuto, aiutando il praticante a superare l'istintiva barriera psicologica nei confronti dell'invasione del proprio spazio privato L'unico modo per raggiungere questo risultato è accettare la presa come un'occasione per rendersi coscienti attraverso l'altro, unificando le proprie percezioni, rifiutando l'idea del conflitto e del confronto che inevitabilmente porterebbe ad un irrigidimento e ad una perdita della sensibilità.

Le perplessità su questo tipo di allenamento derivano da una erronea interpretazione di ciò che si sta facendo. L'evidente improbabilità di essere attaccati da un avversario che ci blocca un polso spinge molti praticanti, soprattutto all'inizio, a ritenere questa pratica inutile e tediosa. Per la verità questo tipo di allenamento ha una sua validità anche dal punto di vista del combattimento, tuttavia ritengo che i maggiori benefici avvengano per il corpo e per le sue percezioni. 
Il contatto con l'altro ci permette di determinare una condizione del tutto nuova: il nostro apparato propriocettivo, ovvero quello formato da un particolare tipo di nervi chiamati, appunto, propriocettori, che tengono l'uomo informato su ciò che avviene dentro di sè quando mette in azione le catene muscolari e l'apparato esterocettore, ovvero l'insieme dei nervi che trasmettono le sensazioni termiche, tattili e dolorose al sistema nervoso centrale, si unificano rinforzando nettamente la nostra percezione cinestetica. Inoltre, l'altro contribuisce a modificare le nostre percezioni e agendo su di noi attraverso lo spazio ed il contatto ci fornisce moltissime informazioni che passano immediatamente attraverso il nostro sistema sensoriale periferico. Da questa condizione è possibile trasformare il rapporto e unificare la propria intenzione con quella dell'altro. Questo nella pratica si chiama KI MUSUBI e costituisce la porta per un livello di relazione assai più ampio e complesso, livello che rimane ignoto a coloro che si ostinano a cercare l’efficacia piuttosto che cercare se stessi.


Paolo Narciso

INCONTRI, DISTANZE, SALUTI E POSIZIONE: SOLO UNA QUESTIONE DI ETICHETTA? FORSE NO…

La cosa che mi preme rimarcare è che la condizione naturale, inconscia dell'essere umano coincide perfettamente con quanto viene insegnato quando si spiega la postura di Hamni.
Interviene, quindi, una condizione innaturale, o forzata, nell'esatto momento in cui la posizione faccia a faccia viene interpretata come un confronto o una sfida.

Ancora una volta: la posizione è comportamento e la nostra intenzione si rivela immediatamente attraverso i messaggi non verbali che il nostro corpo comunica.

Un'altra notazione interessante deriva dallo studio delle diadi e dei gruppi. Per diade si intende una unità relazionale composta da due individui in conformità allo spazio che li circonda. Più semplicemente, quando si studia una diade si pone l'attenzione sui comportamenti che due persone intraprendono in relazione al loro rapporto ed al rapporto con lo spazio circostante. Questa è la dinamica standard di tale incontro, così come si è determinata dall'osservazione scientifica di centinaia di casi: due persone si riconoscono a distanza e si scambiano un saluto, poi camminano l'una verso
l’altra. Ad una distanza interpersonale consueta si fermano, si salutano di nuovo e assumono posizioni frontale ma non di fronteggiamento (Kendon e Ferber, 1970).

In alcuni casi la distanza si accorcia per stringersi la mano e abbracciarsi ma poi i due si porranno ad una distanza che si inserisce in una di due zone principali (Hall, La dimensione nascosta,pp.l52-172 dove approfondisce l’argomento inserendo altre due zone: la distanza sociale e la distanza pubblica che per brevità trascureremo).

a)Distanza informale o intima: normalmente inferiore a un metro e venti entro la portata tattile.

b)Distanza formale: da un metro e venti a due metri circa, ossia fuori della portata tattile.

La dinamica ricalca in modo straordinario ciò che accade quando due praticanti si accingono a lavorare insieme, Si guardano (riconoscimento reciproco) si salutano, si avvicinano, si salutano di nuovo e assumono la posizione di Hamni. Tale dinamica è ancora più evidente nello studio tradizionale delle armi (particolamiente nelle scuole di spada) dove il saluto è ritualizzato e si scandisce in forme e modi molto simili a quelle descritte dall’osservazione scientifica.
Se il rapporto è esclusivo tra due persone e  ha una sufficiente intimità (parenti, amici etc) i partecipanti assumeranno una posizione frontale (sempre non di fronteggiamento quindi non totalmente frontale). Se, al contrario, sono soltanto conoscenti o non sono coinvolti in un rapporto esclusivo, si porranno secondo un certo angolo, fino a 90 gradi di divergenza dalla posizione frontale. Superfluo a questo punto dire che la posizione di  ricalca perfettamente l'attitudine naturale e inconscia che si determina quando si è di fronte a sconosciuti o la transazione coinvolge più di due partecipanti (l'Aikido è dichiaratamente pensato per lavorare su più fronti e con più uke contemporaneamente).

Ogni subunità di cui è composta la posizione hanmi completa e bilancia il messaggio non verbale. La testa ed il busto eretti e sostenuti dalla colonna vertebrale esprimono un'attitudine non remissiva, priva di sottomissione all'altro. Lo sguardo, concentrato nell'area guancia spalla, oltre a permettere un’immediata identificazione dei movimenti attraverso l'uso della visione periferica, non induce alla lotta e non attiva reazioni psicologiche di aggressività. Le spalle centrate e rilassate non esprimono stati emotivi di paura o difesa, stati che possono autorizzare l'altro all'aggressione.
L'orientamento a 45 gradi del corpo determina immediatamente l'uso dello spazio informale (maggiore di un metro e venti) e induce l'altro a mantenerlo. Inoltre comunica l’apertura verso altre transazioni (comunica quindi all’altro: “tu sei il mio oggetto elettivo ma non esclusivo di attenzione “).
La posizione delle mani, al margine inferiore del campo visivo periferico dell'altro, non costituisce una barriera psicologica, non esprime aggressività e non invita al conflitto (circa il gestire con le mani e i messaggi simbolici diremo oltre).
La direzione del piede avanzato mantiene l’orientamento della transazione verso il partecipante alla relazione che sta immediatamente davanti,  aprendo leggermente verso l’esterno,  sia per non vincolare l'anca, sia per suggerire uno spazio più ampio e meno direzionato e quindi meno aggressivo. Il busto o la testa possono liberamente orientarsi verso altri partecipanti all’incontro.

Questa possibilità viene naturalmente ed inconsciamente utilizzata nel comportamento umano durante tutte le relazioni.

L'osservazione scientifica ha mostrato che la posizione del corpo può organizzare più orientamenti simultanei per determinare gerarchie complesse di relazioni.
A tale proposito Sheflen scrive: "una persona che parla si porrà e orienterà il proprio corpo verso un’altra persona o qualche gruppo e mentre conserva questo orientamento corporeo basilare può impiegare la testa, gli occhi e
la parola in una sequenza di unità puntuali e lessicali. Può usare la parte superiore del corpo nell'esecuzione di un compito oppure può semplicemente orientare le gambe e/o la parte superiore del corpo verso qualche persona o sottogruppo mentre muove la testa da un ascoltatore ad un altro."

Ciascuna subunità, all'intemo di una posizione di base, può autonomamente orientare l'intenzione di comunicare o aprire una comunicazione, permettendo di mantenere una serie complessa di rapporti.
Tale serie è, inoltre, gerarchicamente organizzabile: a seconda della distanza a cui si trova il partecipante che si vuole coinvolgere nel rapporto e del grado di coinvolgimento, in modo inconscio e naturale si utilizzeranno determinate subunità (testa, occhi, mani,etc.)

Ne deriva che Hanmi è la posizione naturale ed istintiva che assumiamo quando ci troviamo in una relazione faccia a faccia con un altro di cui non conosciamo le intenzioni, ma verso il quale non nutriamo sentimenti di paura o di aggressività. È, inoltre, una condizione di totale apertura anche verso altri partecipanti, di parità e rispetto, essendo priva di input aggressivi o di autorizzazioni all'aggressione.

Scheflen scrive: “Il rapporto faccia a faccia indica e limita i tipi di attività umana che possono avverarsi e i rapporti di postura, orientamento e distanza indicano il coinvolgimento, l’intimità e il tipo di associazione dei partecipanti” (Scheflen, Il linguaggio del comportamento, p.59).

In linea con ciò, e come elemento aggiuntivo di complessità relazionale, l'Aikido forza i partecipanti a violare lo spazio intimo attraverso il contatto fisico, afferrando il polso, la spalla, il gomito dell’altro. Questa “violazione” dello spazio intimo e privato, insieme al contatto fisico, causa reazioni psicologicamente rilevanti.

Su tali reazioni, sulla loro consapevolezza e gestione, si gioca la partita tra la possibilità di incontrare l’altro e quella di iniziare uno scontro. Per permettere l’incontro è necessario aver coltivato uno spazio di pace ben prima che la violazione dello spazio fisico avvenga. (Vedi ol mio articolo su Shisei, Kamae e Kokyu)


Paolo Narciso

HANMI, LA POSIZIONE NATURALE DELLA RELAZIONE

La prima cosa che mi ha colpito quando ho iniziato a praticare Aikido è stata la bizzarra "guardia" che questa disciplina utilizza: posizione triangolare delle gambe, esposizione laterale del corpo e mani all'altezza del tronco, con braccia e dita ben distese. Provenendo da più di dieci anni di kung fu mi sembrava un suicidio. Inoltre lo sguardo, sereno e profondo, non era mai diretto negli occhi dell"'avversario" ma sembrava passargli attraverso
Solo nel tempo ho capito il senso di quella posizione. Solo nel tempo ho cominciato a considerarla un comportamento comunicativo e non una guardia.
Studi di psicologia sociale (Scheflen, Il Linguaggio del Comportamento, 1977 Astrolabio, Roma pp.69-70) hanno determinato che nelle conversazioni faccia a faccia è assai raro l'orientamento occhio a occhio. Ciascuno fissa lo sguardo su un punto a metà tra la guancia e la spalla dell'altro, appena fuori della portata oculare dell'altro. Quando la visione centrale è focalizzata sull'area guancia spalla il resto della parte superiore del corpo rimane entro la visione periferica. Ogni movimento che ha luogo fuori di questo spazio focalizzato, verrà percepito nei campi visivi e stimolerà un riflesso orientativo. La distanza focale del cristallino verrà allora modificata per osservare la parte in movimento (la precisione dell'orientamento merita un commento: in un pubblico di quaranta o cinquanta persone un oratore può puntare la sua attenzione con una precisione sufficiente per isolare un solo ascoltatore). Vale la pena fare una digressione sui meccanismi sensoriali della vista

IL MECCANISMO DELLA VISIONE

La retina (ovvero la parte dell'occhio sensibile alla luce) è composta da almeno tre zone o aree distinte: la fovea, la macula e la zona dove si verifica la visione periferica. Ogni zona svolge funzioni diverse che consentono di vedere in tre modi completamente differenti, ma che normalmente  non vengono avvertiti come separati a causa del fondersi simultaneo delle tre visioni in un unico quadro percettivo. La fovea è una piccolissima fossetta circolare al centro della retina, che contiene circa 25.000 coni sensibili ai colori inseriti in una rete fittissima, ciascuno con la sua fibra nervosa. La concentrazione delle cellule foveali è incredibile: 160.000 per millimetro quadrato (la superficie di una capocchia di spillo). La fovea permette la visione acutissima di un circoletto dal diametro variabile di circa l/96 - 1/4 di pollice alla distanza di una trentina di centimetri.

La fovea è circondata dalla macula: una superficie gialla e ovale di cellule sensibili ai colori. Questa copre un angolo visuale di 3 gradi di apertura verticale e di 12-15 gradi di apertura orizzontale. La visione maculare è nitida ma non chiara ed acuta come la foveale, perché le cellule sono meno fitte.
La macula è la parte della retina di cui l'uomo si serve, tra le altre cose, per leggere. Quando si afferra un movimento con la “coda dell'occhio” entra in gioco la visione periferica. Allontanandosi dalla parte centrale della retina, le caratteristiche e la qualità della visione cambiano radicalmente: la capacità di distinguere i colori (e di esserne distratti aggiungerei) diminuisce, perché i coni, demandati a questa funzione, si fanno più radi; la visione nitida e minuta si trasforma in grossolana nella quale tuttavia è accentuata la percezione del movimento. Duecento e più bastoncelli sono collegati ad un solo neurone: ciò ha l'effetto di amplificare la percezione del moto e di ridurre la qualità dei dettagli. La visione periferica è compresa in un angolo di circa 90 gradi, da una parte e dall'altra di una linea ipotetica tracciata al centro del cranio.

Ma, vi starete chiedendo probabilmente, cosa c’entra tutto questo con l’ Aiki?

Questa digressione sul meccanismo della visione può esserci utile per capire meglio l'idea di "guardare attraverso" l'altro, mantenendo un'attenzione costante sull'ambiente circostante. In effetti si tratta di evitare di concentrare la visione foveale in un particolare punto, ampliando al massimo l'utilizzo della visione periferica.
Non è tuttavia possibile, né sarebbe utile, eliminare la visione foveale. Ciò comporta il grave rischio di venir "catturati" o distratti da un particolare che, specializzando la nostra attenzione, ci inibirebbe nell'attività di attenzione costante sull'ambiente circostante.

Per comprendere come si può evitare tale rischio dobbiamo addentrarci di un altro passo all'interno dei meccanismi della visione.

VISIONE STEREOSCOPICA E "MA"

Il senso della distanza e dello spazio è dovuto al fatto che l'uomo ha una visione stereoscopica, o almeno questo è quanto comunemente si pensa. In realtà i monocoli possono vedere perfettamente in profondità e la loro peggiore menomazione è la mutilazione della visione periferica dalla parte dell'occhio cieco.

Gibson nel suo libro "The Perception of the Visual World" ha aperto una nuova prospettiva, superando l'opinione tradizionale che vuole la visione stereoscopica come la causa della percezione della profondità (prodotta dalla sovrapposizione dei due campi visivi). La tesi di Gibson e piuttosto complessa, egli individua sperimentalmente infatti ben tredici sistemi di percezione della profondità, ed è per questo che senza indugiare oltre rimandiamo il lettore all'opera originale (tra l'altro anche in appendice ne "La dimensione nascosta" di E.T.Hall). Basti sapere, per ora, che tale tesi è supportata da ampi ed esaurienti studi della psicologia transazionale che dimostrano come il senso visivo della distanza travalica nettamente le leggi della prospettiva lineare.

Gran parte dell'arte di quest'ultimo secolo è in diretta polemica con la prospettiva lineare del Rinascimento e tenta di esprimere le numerose e diverse forme di prospettiva. Tuttavia la prospettiva lineare è, in occidente, ancora alla base dell'arte più popolare.
I pittori cinesi e giapponesi rappresentano la profondità in modo completamente diverso: l’arte orientale fa variare progressivamente il punto di vista, mantenendo la scena costante, mentre gran parte dell'arte occidentale usa il processo esattamente opposto.

Il problema trascende il campo artistico, anche se si riflette in esso: è lo spazio ad essere percepito in modo radicalmente diverso. In occidente si percepiscono gli oggetti, ma non gli spazi che li comprendono; in Giappone, invece, gli spazi sono percepiti, dominati e venerati come il MA, o intervallo intercorrente.

La prospettiva lineare del Rinascimento, prendiamo ad esempio la pittura, mantiene lo spazio statico ed organizza i suoi elementi in modo che tutto l'insieme possa essere visto da un solo punto.
Questo, in sostanza, significa trattare lo spazio tridimensionale in modo bidimensionale.
La coscienza dello spazio come intervallo intercorrente, del MA, ci permette di considerarlo come oggetto osservabile esso stesso. La visione foveale può, dunque, diluirsi nell'osservazione chiara del ma e omote e ura diventano dimensioni prospettiche della stessa cosa, modi di usare lo spazio che è intorno ad un individuo e tra questi e noi.

Le persone in un rapporto "faccia a faccia" non si guardano negli occhi salvo che in un confronto aggressivo diretto o in uno scambio di corteggiamento. Nessuna delle due situazioni si adatta, evidentemente, a ciò che dovrebbe accadere in un dojo di Aikido.

Paolo Narciso


SHISEI, KAMAE E KOKYU: L’ARTE DELLA PACE COMINCIA PRIMA DI QUANTO PENSIAMO.

Durante i miei studi di filosofia e psicologia molte cose mi sono sembrate intimamente legate all’Aikido. Molte volte sono rimasto sconcertato nel vedere affiorare in modo tanto evidente quanto
naturale e razionale relazioni tra l'etica presentata da certi filosofi e i principi della “Via”, tra le affermazioni di Hegel sullo Spirito Assoluto e la mistica di O-Sensei. Spesso ho speso ore a leggere e rileggere passi dei testi dei grandi pensatori del passato e a confrontarli con l'esperienza dell'Aikido, a intessere paralleli tra il concetto greco di “pneuma” e quello di e di “kokyu”.

Tuttavia un sano spirito cartesiano mi ha sempre tormentato in ogni riflessione spingendomi acercare qualcosa che giustificasse sia questi rocamboleschi accostamenti che la presunta validità universale della pratica, adatta a chiunque a prescindere dalla razza, dalla religione, dal sesso o dal livello di istruzione. Una base prima, un assioma certo da cui far partire una riflessione.

Una frase di Watzlawick mi ha aperto la strada facendomi vedere le cose da una prospettiva diversa: “Non si può non comunicare”. L'uomo comunica costantemente, comunica verbalmente e non, con il silenzio, mentre dorme, continuamente viene interpretato da chi lo osserva o lo ascolta.
Filosoficamente potremmo dire che l’essere nel mondo non è mai disgiunto dal comunicare e la comunicazione non è un fatto accidentale o occasionale ma permanentemente legato all'esistenza. Il comportamento comunica costantemente e tra essere e comportamento non v'è distinzione. Sempre
Watzlawick ne “La Pragmatica della comunicazione umana” rileva che “il comportamento non ha un suo opposto”, non esiste un qualcosa che sia definibile come un non-comportamento o un momento in cui l'individuo abbia un non-comportamento.

Queste affermazioni valgono per tutti gli esseri viventi e, con maggior forza, per tutti gli esseri umani, i quali sono dotati di sistemi rappresentazionali e di comunicazione assai più complessi e completi degli altri animali (anzi si potrebbe dire che, dopo il pollice opponibile sia questa la caratteristica che “fa la differenza”). Tuttavia quando pensiamo alla comunicazione, l'espressione più immediata che ci viene in mente è la comunicazione verbale. Gli studi sulla comunicazione in ambito psicologico e sociologico ci insegnano, invece, che solo una piccolissima parte della comunicazione si esplica attraverso la parola e che più dell'80% di essa avviene attraverso canali e modelli non verbali.

Nella comunicazione verbale il flusso del parlare attraverso il tempo è composto da una sequenza di unità sintattiche formate da subunità chiamate frasi. Le frasi sono a loro volta formate da subunità chiamate parole, ciascuna parola è composta da una sequenza di morfemi e ciascun morfema da una sequenza di fonemi particolari. La posizione della testa, delle spalle, degli occhi, delle mani, sono segni attraverso i quali esprimiamo contenuti sia in appoggio ad espressioni verbali sia in modo autonomo.

Tutto il corpo collabora alla comunicazione e, così come possiamo identificare le unità che costituiscono il flusso significativo della comunicazione verbale, altrettanto possiamo fare per quello che riguarda i modelli di comunicazione non verbale. Tutto il comportamento è strutturato in questo modo: possiamo identificare unità distinte e reali del comportamento e determinarne i livelli gerarchici che si integrano per costruire una più grande unità significativa così come le unità linguistiche si integrano per costruire una frase.

Gli studi di psicologia sulla comunicazione e quelli di prossemica sulle distanza significativa tra gli individui ci dicono con forza di prove che il solo stare di fronte ad un altro comunica una serie di significati complessi che passano attraverso indicatori specifici quali, appunto, la distanza e la posizione (Ma-ai e Shisei).

Una serie di atteggiamenti collaborano a specializzare il messaggio: la posizione delle mani, la direzione e l'intensità dello sguardo, la tensione delle spalle etc.
L”insieme di tutte queste specificità corporee costituisce l’unità significativa fondamentale della comunicazione non verbale: la postura.

Albert Scheflen, pioniere della ricerca sociosomatica, definisce la postura: "unità comunicativa complessa che comporta una sequenza di unità simultanee di attività". Più semplicemente, la posizione nel suo intero comunica una serie di informazioni attraverso l'attività delle subunità che la compongono, ovvero orientamento del corpo o di parti di esso (testa, gambe, occhi, tronco), posizione e attività delle mani, posizione delle spalle, etc. L'intero corpo viene impiegato in un complesso di attività orientative e comunicative.

La posizione "comunica l'intenzione" di mettere in atto dei comportamenti, siano essi azioni o comunicazioni.  Una posizione viene assunta e mantenuta mentre e per tutto il tempo durante il quale una  certa attività viene eseguita. Quando tutte le attività comprese nella posizione sono state completate il soggetto assumerà un altro orientamento.

Vale la pena a questo punto fare alcune precisazioni e qualche collegamento. Nella normale attività comunicativa, gli studi di psicologia che si occupano del comportamento hanno rilevato che le persone mantengono in modo inconsapevole la stessa posizione durante tutto il tempo per il quale esprimono la medesima unità concettuale. Ad esempio se una unità concettuale è cominciata con il gesto di cadenzare le parole con una mano, questo gesto verrà mantenuto fino al momento in cui tutto il contenuto verrà espresso (ciò è vero anche se chi parla viene interrotto. Quando riprenderà ad esporre il contenuto della unità concettuale riprenderà lo stesso gesto).

Questa aderenza della medesima posizione alla unità concettuale espressa è un fatto, come ho già detto, inconscio. Tuttavia si è rilevata una tale congruenza tra posizione e comunicazione verbaleanche per quanto riguarda classi di unità concettuali.

Ad esempio Schelfen ha dimostrato che se silega in modo solido alla frase "immagina un vaso" un gesto delle mani che disegna idealmente una coppa (mani a conca con le palme rivolte verso l'alto ed un leggero movimento a semicerchio in su), tale gesto verrà ripetuto in ogni occasione in cui l'attività dell'immaginare è coinvolta, a prescindere dal contenuto.
Questo significa che se mentalmente leghiamo ad un movimento una attività cognitiva o una idea,
quell’attività avverrà in modo automatico ed inconscio ogni volta che faremo quel dato movimento


Una tecnica di Aikido  può essere vista come una unità significativa, composta da molte subunità. Le subunità possono essere identificate nelle posizioni che si susseguono e costruiscono la tecnica. Ogni posizione, a sua volta può essere scomposta in una serie di subunità radice od originarie (microcomportamenti) che sono costituiti dalla postura delle mani, dei piedi, dalla direzione dello sguardo, dalla posizione del corpo, ecc.

A ben guardare, la prima cosa che si studia quando si comincia a praticare Aikido sono proprio queste subunità originarie (Shisei, Kamae) e, prima tra tutte, la "posizione naturale del corpo" (Shizentai).

Vale la pena ricordare a questo punto che la posizione è comunicazione e quindi comportamento. Il solo stare dritti in piedi coinvolge tutta una serie di messaggi che derivano dalla tensione del tono muscolare, dallo sguardo
dalla posizione del peso, etc.

Tutte queste variabili possono essere modulate per trasmettere un messaggio: aggressività, calma o addirittura soggezione vengono immediatamente suggeriti a chi ci sta di fronte causando, immediatamente, una serie di reazioni psicologiche.

Il nostro comportamento produce, dunque, messaggi ai quali verrà data risposta dal comportamento di chi ci sta davanti: controllare i messaggi che mandiamo significa quindi controllare le reazioni degli altri o, per dirla in termini aikidoistici prendere il Ki dell’altro.
Possiamo provocarli, intimorirli o placarli. Nulla di particolarmente nuovo sotto il sole, si potrebbe pensare. Ma cosa accade in noi se al nostro kamae e al nostro shisei leghiamo l’attività mentale del pieno rilassamento e della non competizione?
Questa è una ipotesi per tentare di spiegare da un’altra prospettiva perché in Aikido non si utilizzano guardie aggressive, perché lo sguardo deve restare rilassato e attraversare l’altro  mantenendo il fuoco dell’attenzione diffuso, perché è importante mantenere una postura distesa, eretta e naturale.
Stiamo evidentemente comunicando, e il nostro messaggio è: “non sono un nemico, non sei il mio nemico”. E se questa idea si lega profondamente a questi elementi posturali anche sotto lo stress e la concitazione dell’attacco o degli attacchi la nostra mente produrrà l’unità significativa : “non sono il nemico, non sei il mio nemico”. Uno spazio di pace in noi che diventa una naturale disposizione coltivata attraverso l’unità mente corpo. Un messaggio che può ancorarsi profondamente solo attraverso uno studio profondo e attento della postura e la consapevolezza delle emozioni che proviamo quando assumiamo un determinato kamae.

Entra qui in gioco il terzo elemento del trittico di base, l’ultima submodalità originaria che fonda ogni ulteriore progresso nell’Aiki: il kokyu, il respiro.


La respirazione è notoriamente legata alle emozioni e da esse alterata. A sua volta ha la capacità di influenzare le emozioni e di alterarle. Aumenta in frequenza e si accorcia in lunghezza quando le emozioni si eccitano e diminuisce e si approfondisce quando si calmano. Attraverso la consapevolezza del respiro possiamo essere consapevoli delle nostre emozioni. Così shisei, kamae e kokyu chiudono un cerchio ideale. Attraverso il respiro coltiviamo emozioni non distruttive, attraverso la postura le ancoriamo alla nostra psiche e attraverso il kamae le proponiamo al mondo, ovvero all’altro. Quando questo circolo diventa virtuoso e ben consapevolizzato il solo prendere la postura produrrà pace in noi, proporrà pace all’altro e creerà le basi per l’Aiki.

Paolo Narciso