sabato 28 marzo 2015

FUDOSHIN E MENTE EQUANIME: UNA PROSPETTIVA DHARMICA DEL BUDO


Nel Budo si sente parlare spesso dell’importanza di raggiungere e mantenere uno stato mentale di calma ed imperturbabilità, uno stato nel quale la mente non sia disturbata dai pericoli esterni, determinati dall’altro e dalla sua azione, e dai pericoli interni, che sono determinati dal dilagare degli stati emotivi incontrollati e da altri impedimenti.

Questo stato mentale viene definito nella tradizione marziale giapponese “fudo-shin”, mente inamovibile. Nelle tradizioni buddhiste questo stato prende il nome di “mente equanime”  (in pali, la lingua del Buddha - Upekkha) e rappresenta in qualche modo il cuore del lavoro    sugli stati salutari della mente o “dimore divine” (pali – Brahmavihara).

Questo concetto di equanimità è di non facile comprensione e diventa ancora più fraintendibile se decontestualizzato e trasmesso quasi a se stante all’interno di una tradizione marziale, della quale finisce per rappresentare, alla meglio, una curiosità esotica e, nel peggiore dei casi, un qualcosa di misterioso ed esoterico.

Il raggiungimento di una mente equanime è invece centrale per la pratica del Budo, è quindi importante comprenderne in modo corretto la natura per poterla coltivare nella propria pratica.
Per far questo, è opportuno osservare da vicino i principali fraintendimenti che riguardano Fudo-shin.

Equivoco fondamentale sull’equanimità è prendere uno stato di equilibrio per uno stato di anaffettività o di assenza di emozioni.
La capacità di essere al di sopra di stati di gioia e di sofferenza in greco si definisce  apathèia, apatia, ed è originariamente annoverata tra le virtù. Il suo corrispettivo latino è impassibìlitas, impassibilità, disposizione d’animo che, anch’essa, presso i Romani dimorava tra le virtutes.
La nostra percezione di questi due termini, apatia e impassibilità, si discosta ampiamente dal significato intimo del termine equanimità, che significa animo equo, equilibrato, che non pende a favore o contro, sensibile ma non suscettibile e particolarmente emotivo.
Ed ecco il primo pericolo nella pratica del Budo: lo spostamento forzoso, determinato da un indurimento e una chiusura dell’animo, dello stato interno della mente verso una forma di impermeabilità a ciò che accade nella relazione con l’altro, un discostarsi sia dall’altro che da se stessi.

Il tentativo di riduzione e rimozione degli stati interni (emozioni, ruminazione mentale e quant’altro) è una forma di squilibrio e di negazione che allontana dal lavoro di coltivazione della mente equanime.Un animo non suscettibile o particolarmente emotivo non è un animo insensibile, incapace di percepire. E’, al contrario, un animo aperto e particolarmente ricettivo ma, non facilmente influenzabile e modificabile.

Altra area di lavoro notevole è la mente pensante. La maggior parte degli esseri umani è dipendente dal pensare, la tal cosa non significa che sia abile nel pensare, e non riesce a tollerare alcuna forma di vuoto nel processo continuo e senza soluzione del pensiero. Questa compulsione al pensiero automatico è causa di non poche difficoltà nella pratica sul tatami. Il corpo non viene mai sperimentato in modo diretto e semplice e l’esperienza è sempre mediata.

Per permetterci un distacco, una distanza dalla continua ruminazione mentale, è necessario coltivare l’equanimità, una posizione di osservazione che non avversa e non indulge nell’attività del pensiero e negli stati emotivi.
L’esplorazione del nostro mondo interno deve evitare due attitudini che, per loro propria natura, si trovano all’opposto dell’equanimità: repressione(soffocare, non sentire, non vedere, coprire, deviare, distrarsi) e identificazione (attaccamento )

COME CREARE INTENZIONALMENTE EQUANIMITA’ FUORI DAL TATAMI

1) Lasciare andare i giudizi negativi, quando sorgono, su quello che stiamo vivendo
2) Rimpiazzarli con un atteggiamento di accettazione amorevole e gentile
3) Lasciare andare è diverso dal cercare di sbarazzarci di qualcosa. Prendiamo il corpo: ogni volta che diventiamo consapevoli di una tensione in un’area, la rilassiamo per quanto possibile. Il momento successivo possiamo accorgerci che la tensione è cominciata di nuovo, ancora gentilmente la rilassiamo. Se ci sono zone che non possono essere rilassate, cerchiamo di accettarle per quelle che sono, così come sono, e semplicemente osserviamole.
E’ molto importante riconoscere quando l’equanimità si manifesta da sola, ovvero non è presente grazie ad una operazione intenzionale.
Tutti, di tanto in tanto, possiamo entrare in uno stato di equanimità. Sfruttiamo l’occasione per osservare quando accade e tale stato tenderà a presentarsi più e più frequentemente.
A volte capita, ad esempio, di essere stati sotto il peso di un grande disagio fisico e che, in un dato momento, ci accorgiamo che, pur non essendo cambiato il livello di disagio, ne siamo meno infastiditi, meno disturbati.
Spontaneamente siamo entrati in uno stato di equanimità, di gentile accettazione, che se osservato troverà la strada per ripresentarsi più e più frequentemente. E’ un seme piantato nell’inconscio.
4) Come suggerito dalla tradizione buddhista pronunciare, quando possibile, delle frasi di equanimità di fronte a situazioni o persone difficili, sostituendo l’irrigidimento e la tensione derivata dal moto avversivo con affermazioni come: “che io possa accettare il momento presente così come è”, “che io possa accettarti così come sei”, “ che io possa accettare me stesso così come sono”.

EQUANIMITA’ E NON INTERFERENZA:
L’equanimità è non interferenza con il flusso naturale delle sensazioni soggettive, da non confondersi, come già visto, con l’apatia, che implica indifferenza verso il flusso delle sensazioni soggettive.
L’equanimità libera energia interiore per poter rispondere a situazioni esterne: per definizione essa è un permesso radicale di sentire, un darsi totalmente il permesso di sentire e quindi è diametralmente all’opposto dell’indifferenza. E’ sentire in modo libero, senza interferire con il rifiuto, la paura, il desiderio, l’attaccamento che possono sorgere insieme al sentire.

EQUANIMITA’, DOLORE E PIACERE
Consideriamo che la maggior parte di noi non ha familiarità con l’esperienza del puro dolore, ovvero dell’esperienza del dolore senza la resistenza. Quando da una situazione preconscia noi andiamo coscientemente a sentire un’ondata di dolore, l’esperienza si è già congelata in una sofferenza accompagnata da una resistenza-rifiuto. Una parte non irrilevante di questa sofferenza è dovuta alla resistenza stessa.  Quello che le persone chiamano dolore è una combinazione di dolore e resistenza al dolore.
Quanto questo sia vero nella percezione del dolore fisico causato da un’azione diretta sulle articolazioni, è di facile intuizione per chi ha un po’ di pratica sul tatami
Se ci addestriamo a resistere di meno al dolore, riusciremo a soffrire di meno, ad esperire una pura esperienza di dolore priva della sofferenza aggiunta dalla resistenza.
L’esperienza di ricevere in modo aperto e consapevole una sollecitazione sul corpo data dall’azione dell’altro è fortemente educativa. A volte ci si chiede perchè continuare una pratica nella quale vi sono così tante sollecitazioni dolorose. La risposta è che sono tutte ottime occasioni per sviluppare equanimità. La generica e facile etichetta di “masochista” o “sadico” che spesso viene affibiata ai praticanti con frasi che suonano all’incirca :“ma chi te lo fa fare?”, “ma che gusto c’è a sbattersi per terra ?” è contraddetta dalla più ampia comprensione che un lavoro di fondo sull’apertura al presente e alle situazioni dolorose è connaturata alla ricerca di un’esistenza libera, come nel budo così nella vita.
Detto ciò, consideriamo anche che molti non hanno neanche familiarità con l’esperienza del puro piacere, ciò che le persone chiamano piacere è, di fatto, una mescolanza di piacere e attaccamento al piacere.
Lasciare andare la resistenza al dolore, lasciare andare l’attaccamento al piacere sono i due lati dell’equanimità, ovvero il non interferire con l’esperienza del flusso delle sensazioni soggettive.

I CINQUE IMPEDIMENTI
La mente inamovibile, ovvero equanime nel senso che abbiamo cominciato a vedere poch’anzi, è una mente libera. Ma libera da che? Anche questa domanda, raramente trova una risposta esauriente sul tatami.
Per guardare meglio dentro questo argomento prendiamo spunto dalle parole del Venerabile Ajahn Brahmavamso, monaco della Tradizione della Foresta (Theravada):
“L’intera pratica che conduce all’Illuminazione può essere ben espressa come lo sforzo di superare i cinque impedimenti, all’inizio sopprimendoli temporaneamente al fine di sperimentare i jhana (stati di felicità interiore) e la saggezza intuitiva, e poi superandoli permanentemente tramite il pieno sviluppo del nobile ottuplice sentiero.
Quindi, quali sono questi cinque impedimenti? Sono:
KAMACCHANDA: desiderio sensoriale
VYAPADA: malevolenza
THINA-MIDDHA: pigrizia e torpore
UDDHACCA: inquietudine e rimorso
VICIKICCHA: dubbio”

Ovviamente le parole del Venerabile Brahmavamso si riferiscono alla pratica della meditazione (Samatha e Vipassana) e non al Budo. Partendo dal presupposto che, se esista o meno differenza radicale tra le due pratiche, è argomento da esaminare con attenzione, possiamo comunque rilevare facilmente diverse analogie e “ritagliare” i concetti di cui sopra alla misura dell’esperienza sul tatami.

KAMACCHANDA – desiderio sensoriale – libertà da se stessi
Il primo impedimento alla coltivazione di una mente inamovibile è l’attaccamento alle informazioni che ci derivano dai sensi. Guardare e vedere sono due attività diverse e distinte, la prima contenendo un fattore di volontarietà che è assente nella seconda.
Di fronte ad una presa, ad un atemi (colpo) la nostra mente viene catturata dal movimento e convoglia tutta la propria capacità attentiva su di esso. Inevitabile effetto dell’attaccarsi alla percezione sensoriale è l’immediata strutturazione di una mente imprigionata che reagisce allo stimolo invece di agire includendo lo stimolo nel più ampio quadro della consapevolezza. Si tratta della fase della libertà da se stessi.
Ancora nelle parole del Veneraile Brahmavamso: “Quando il desiderio sensoriale è superato, la mente di colui che medita non ha interesse nella promessa di piacere e neppure nel benessere di questo corpo. Il corpo sparisce e i cinque sensi si spengono. La mente diventa calma e libera di guardare all’interno. La differenza tra l’attività dei cinque sensi e il suo superamento è simile alla differenza tra guardare fuori da una finestra e guardare in uno specchio. La mente che è libera dall’attività dei cinque sensi può veramente guardare all’interno e vedere la sua vera natura. Solo in questo può emergere la saggezza relativa a ciò che siamo, da dove veniamo e perché?!”

VYAPADA – malevolenza – libertà dall’altro
“La malevolenza si riferisce al desiderio di punire, nuocere o distruggere. Include il puro odio verso una persona, o persino verso una situazione, e può generare così tanta energia da essere allo stesso tempo attraente e dare assuefazione. Quando si esprime appare sempre giustificata perché il suo potere è tale che facilmente corrompe la nostra capacità di giudicare correttamente”.
Questo impedimento riguarda la relazione io-altro. Spesso sentiamo dire che nel Budo è necessario passare dal concetto di avversario al concetto di compagno di pratica per raggiungere un orizzonte di prosperità mutuale. Certamente questa è condizione imprescindibile per armonizzarsi con l’altro ma ancora più alla radice c’è la impossibilità di coltivare equanimità, e quindi inamovibilità, se l’altro diventa un ostacolo (dal latino hostes – nemico - ). E’ quindi importante per non essere trascinati in uno stato di avversione, disporsi in modo propositivo e collaborativo all’incontro con l’altro, dirigendosi verso e non contro. Questa è probabilemte la radice di “musubi” l’unione che si deve ricercare con l’altro.
“...e sarà altrettanto improbabile lasciare cadere il respiro a causa di alcuni pensieri distraenti come è improbabile per una madre distratta lasciar cadere il proprio figlio! Quando la malevolenza è superata, allora sono possibili relazioni durature con altre persone, con se stessi e, nella meditazione, una relazione duratura e piacevole con l’oggetto di meditazione, che può maturare nell’abbraccio pieno del completo assorbimento”.
Se c’è in noi una disposizione d’animo a distruggere l’altro, sarà molto difficile che il contatto, e mi riferisco al contatto fisico, non ne venga influenzato. Faremo così una notevole fatica a non rompere la relazione e i punti di contatto tra il nostro corpo e il corpo dell’altro. Per contro, questo andare insieme sorgerà spontaneo se sostituiremo la malevolenza con l’apertura (o la gentilezza – metta – in senso buddhista). Non dovendo più occuparcene, il contatto si sosterrà da sè e ci lascerà liberi e quindi in una condizione fertile per l’equanimità.

THINA-MIDDHA: pigrizia e torpore

Citando un noto Sensei, Stephane Benedetti, esiste una pigrizia stupida e una pigrizia intelligente. La prima consiste nella passività che non realizza pienamente la consapevoezza del momento presente, con la conseguenza nel budo di azioni scomposte e marzialmente poco intelligenti. La seconda consiste nel non fare nulla di più di ciò che è strettamente necessario (ma nulla di meno! Ammonirebbe il succitato sensei) e quindi è una forma di saggia rinuncia (pali – Nekkhamma) a tutto ciò che si aggiunge alla semplicità (altra traduzione della stessa parola pali) del momento presente.
Nel Budo incontriamo moltissime forme di pigrizia: E’ pigrizia la ripetizione meccanica, e quindi vuota per definizione, di un esercizio o un compito. E’ pigrizia la sostituzione di ciò che si sa a ciò che si osserva quando viene mostrata una tecnica, è pigrizia la postura lassa e la parola vana e l’elenco potrebbe continuare.
Scrive Ajahn Brahmavamso:
“Pigrizia e torpore si riferiscono alla pesantezza del corpo e all’intorpidimento della mente che trascinano l’individuo verso un’inerzia disabilitante e una profonda depressione. Il Buddha li paragonava all’essere imprigionati in una cella buia e stretta, impossibilitati a muoversi liberamente nello splendore della luce esterna. Nella meditazione questa condizione mentale provoca debolezza e consapevolezza intermittente e può persino portare, senza neppure accorgersene, ad addormentarsi![...] Un bambino ha un interesse naturale, e di conseguenza energia, perché il suo mondo è del tutto nuovo. Quindi, se possiamo imparare a guardare alla nostra vita, o alla nostra meditazione, con la mente del principiante, possiamo vedere sempre nuove prospettive e possibilità che ci tengono lontani dalla pigrizia e dal torpore, vivi e pieni di energia. Allo stesso modo, possiamo sviluppare piacere in qualunque cosa stiamo facendo; allenando la nostra percezione nel vedere il bello nell’ordinario generiamo un interesse che evita la semi-morte della pigrizia e del torpore. La mente ha due funzioni principali, "fare" e "conoscere". La via della meditazione è calmare il " fare" fino alla completa tranquillità mentre viene mantenuto il " conoscere". Pigrizia e torpore si hanno quando calmiamo senza attenzione il "fare" e il "conoscere", incapaci di distinguere tra di loro.”
Quindi la mancanza di energia, di giusta tensione e di una attitudine propositiva sia negli aspetti mentali che in quelli tecnici nella pratica imprigiona la mente e allontana da quello stato di libertà e consapevolezza sul quale può fiorire la mente equanime.

UDDHACCA: inquietudine

All’opposto di uno stato di ottundimento determinato dalla pigrizia troviamo uno stato di agitazione della mente e del corpo, una mancanza di organizzazione che produce “rumore” superfluo e, conseguentemente, l’impossibilità di ottenere movimenti puliti, precisi e misurati.
Una mente inquieta,così come un corpo agitato, trascinano il praticante in una concatenazione di reazioni e di attaccamenti a questo e a quello.
Un ottimo modo di coltivare l’equanimità è notare l’agitazione e rallentare l’esecuzione dando spazio all’attenzione che potrà essere così focalizzata senza disperdersi.
 Ancora seguendo le parole di Ajahn Brahmavamso:
 “L'irrequietudine si riferisce ad una mente che è come una scimmia, che salta in continuazione da un ramo all’altro, non riuscendo mai a soffermarsi a lungo in nessun luogo. E’ causata da uno stato mentale che cerca difetti, il quale non può essere soddisfatto dalle cose così come sono, e quindi deve continuare a muoversi con la speranza di qualcosa di meglio, sempre altrove.
Il Buddha paragonava l’irrequietudine all’essere schiavi, che devono continuamente scattare agli ordini di un padrone tirannico che esige sempre la perfezione e non gli permette di fermarsi. L’irrequietudine è superata sviluppando la contentezza, che è l’opposto del trovare difetti. Impariamo la semplice gioia di essere soddisfatti con poco, piuttosto che volere sempre di più. Siamo grati per questo momento, piuttosto che andare a vedere le sue mancanze. Per esempio, nella meditazione l’irrequietudine è spesso l’impazienza di muoversi velocemente allo stadio successivo. I progressi più veloci sono conseguiti da chi è contento dello stadio in cui al momento si trova, ed è nell'approfondire questa contentezza che matura lo stadio successivo. Quindi siate attenti al " voler andare avanti", ed invece imparate come fermarvi in una apprezzante contentezza. In questo modo, il "fare" sparisce e la meditazione fiorisce.”

Una pratica irrequieta è anche determinata dal continuo autorimprovero e dall’analisi senza fine di ciò che non va o che manca o che può essere fatto meglio. Questa disposizione d’animo, lungi dall’essere costruttiva, non produce alcuna equanimità e non permette lo sviluppo di fudo-shin. Ovviamente non si tratta di indulgere con se stessi o, ancor meno, pensare che qualsiasi cosa si faccia vada bene, non importa come. Al contrario, mantenere la mente equilibrata tra l’osservazione di ciò che accade e il sincero apprezzamento per ciò che c’è, uniti ad una fervente disposizione d’animo orientata verso la perfezione ci connette ad uno spazio equanime.

VICIKICCHA: dubbio

“.Il dubbio si riferisce alle domande interne che disturbano nel momento in cui dovremmo silenziosamente muoverci più in profondità. Il dubbio può mettere in discussione la propria abilità "Posso fare questo?" o mettere in discussione il metodo "E’ questo il modo giusto?" o mettere in discussione persino il significato "Che cos’è?". Dovremmo ricordarci che tali domande sono ostacoli alla meditazione perché vengono poste al momento sbagliato e quindi diventano un’intrusione, oscurando la nostra chiarezza. Il Buddha collegava il dubbio all’essere perso in un deserto, senza avere dei punti di riferimento. Un tale dubbio è superato raccogliendo indicazioni corrette, avendo una buona mappa, così da riconoscere i segni impercettibili nel territorio non familiare della meditazione profonda e sapere quindi quale direzione prendere” (Ajahn Brahmavamso)
Esistono varie forme di dubbio che possono ostacolare il sorgere di una mente equanime. Il dubbio circa se stessi, il dubbio su ciò che si sta facendo, il dubbio sull’altro, il dubbio sulla situazione presente.
Nel Budo le prime tre tipologie di dubbi si superano attraverso l’affidamento al proprio insegnante, al quale si delega imprescindibilmente la facoltà di giudizio su tali argomenti. Se questo affidamento è sincero, la mente può esimersi dalle mille domande distraenti e dedicarsi allo sviluppo della pratica.
L’ultima forma di dubbio, quello sulla situazione presente, si affronta sviluppando l’esperienza ed il concetto di “irimi” ovvero entrare direttamente con il corpo. Fatta salva l’accezione tecnica del concetto, è rilevante osservare che “irimi” può voler dire entrare in contatto direttamente con la verità delle cose nella situazione presente. In altre parole, andare verso ciò che c’è di fronte a sè senza pregiudizi e senza essere trattenuti dall’agitazione della mente-cuore.
Questa uscita dal dubbio è di per sè un entrare in contatto con la verità del momento presente e rappresenta il cuore della mente equanime che per sua natura è una mente fiduciosa (altra possibile interpretazione di fudo-shin).
“La fine del dubbio, in meditazione, viene descritta da una mente che ha piena fiducia nel silenzio, e quindi non interferisce con nessun altro discorso esterno. Come avere un buon autista, durante il viaggio sediamo in silenzio affidandoci a lui.”
Entrare, come se l’altro non esistesse, non occupandoci di lui ma seguendo la direzione del proprio cammino, senza essere imprigionati, liberi da ciò che è prodotto da cause e condizioni.


Per concludere vorrei tornare nella terra del Sol Levante nella quale troviamo Fudō myō-ō , una divinità buddista (e uno dei tredici Buddha Giapponesi) che porta una spada in una mano (per recidere delusione e ignoranza) e una corda nell'altra (per legare "le forze del male", e le passioni e le emozioni violente o incontrollate). Nonostante un aspetto intimorente, i suoi caratteri di benevolenza e asservimento agli esseri viventi sono simboleggiati dallo stile della sua capigliatura tipica della classe servile.
Questa manifestazione del Buddha Vairocana (Mahadeva) è anche preposta a condurre i defunti nell’altro mondo. E’ una rappresentazione impressionante della mente equanime che attinge ad una conscenza priva di attaccamento e avversione e conduce all’estinzione dell’io-mio.

Paolo Narciso



Riferimenti:
I cinque impedimenti (nivarana ) del venerabile Ajahn Brahmavamso testo completo su www.santacittarama.it
Corrado Pensa:La tranquilla passione – Il silenzio tra due onde Ed.Ubaldini e Consapevolezza Equanime – quaderni A.Me.Co



Nessun commento:

Posta un commento