Nel
Budo si sente parlare spesso dell’importanza di raggiungere e mantenere uno
stato mentale di calma ed imperturbabilità, uno stato nel quale la mente non
sia disturbata dai pericoli esterni, determinati dall’altro e dalla sua azione,
e dai pericoli interni, che sono determinati dal dilagare degli stati emotivi
incontrollati e da altri impedimenti.
Questo
stato mentale viene definito nella tradizione marziale giapponese “fudo-shin”,
mente inamovibile. Nelle tradizioni buddhiste questo stato prende il nome di
“mente equanime” (in pali, la lingua del
Buddha - Upekkha) e rappresenta in qualche modo il cuore del lavoro sugli stati
salutari della mente o “dimore divine” (pali – Brahmavihara).
Questo
concetto di equanimità è di non facile comprensione e diventa ancora più
fraintendibile se decontestualizzato e trasmesso quasi a se stante all’interno
di una tradizione marziale, della quale finisce per rappresentare, alla meglio,
una curiosità esotica e, nel peggiore dei casi, un qualcosa di misterioso ed
esoterico.
Il
raggiungimento di una mente equanime è invece centrale per la pratica del Budo,
è quindi importante comprenderne in modo corretto la natura per poterla
coltivare nella propria pratica.
Per
far questo, è opportuno osservare da vicino i principali fraintendimenti che
riguardano Fudo-shin.
Equivoco
fondamentale sull’equanimità è prendere uno stato di equilibrio per uno stato
di anaffettività o di assenza di emozioni.
La
capacità di essere al di sopra di stati di gioia e di sofferenza in greco si
definisce apathèia, apatia, ed è
originariamente annoverata tra le virtù. Il suo corrispettivo latino è
impassibìlitas, impassibilità, disposizione d’animo che, anch’essa, presso i
Romani dimorava tra le virtutes.
La
nostra percezione di questi due termini, apatia e impassibilità, si discosta
ampiamente dal significato intimo del termine equanimità, che significa animo
equo, equilibrato, che non pende a favore o contro, sensibile ma non
suscettibile e particolarmente emotivo.
Ed
ecco il primo pericolo nella pratica del Budo: lo spostamento forzoso,
determinato da un indurimento e una chiusura dell’animo, dello stato interno
della mente verso una forma di impermeabilità a ciò che accade nella relazione
con l’altro, un discostarsi sia dall’altro che da se stessi.
Il
tentativo di riduzione e rimozione degli stati interni (emozioni, ruminazione
mentale e quant’altro) è una forma di squilibrio e di negazione che allontana
dal lavoro di coltivazione della mente equanime.Un animo non suscettibile o
particolarmente emotivo non è un animo insensibile, incapace di percepire. E’,
al contrario, un animo aperto e particolarmente ricettivo ma, non facilmente
influenzabile e modificabile.
Altra
area di lavoro notevole è la mente pensante. La maggior parte degli esseri
umani è dipendente dal pensare, la tal cosa non significa che sia abile nel
pensare, e non riesce a tollerare alcuna forma di vuoto nel processo continuo e
senza soluzione del pensiero. Questa compulsione al pensiero automatico è causa
di non poche difficoltà nella pratica sul tatami. Il corpo non viene mai
sperimentato in modo diretto e semplice e l’esperienza è sempre mediata.
Per
permetterci un distacco, una distanza dalla continua ruminazione mentale, è
necessario coltivare l’equanimità, una posizione di osservazione che non
avversa e non indulge nell’attività del pensiero e negli stati emotivi.
L’esplorazione
del nostro mondo interno deve evitare due attitudini che, per loro propria
natura, si trovano all’opposto dell’equanimità: repressione(soffocare, non
sentire, non vedere, coprire, deviare, distrarsi) e identificazione
(attaccamento )
COME
CREARE INTENZIONALMENTE EQUANIMITA’ FUORI DAL TATAMI
1) Lasciare
andare i giudizi negativi, quando sorgono, su quello che stiamo vivendo
2) Rimpiazzarli
con un atteggiamento di accettazione amorevole e gentile
3) Lasciare
andare è diverso dal cercare di sbarazzarci di qualcosa. Prendiamo il corpo:
ogni volta che diventiamo consapevoli di una tensione in un’area, la rilassiamo
per quanto possibile. Il momento successivo possiamo accorgerci che la tensione
è cominciata di nuovo, ancora gentilmente la rilassiamo. Se ci sono zone che
non possono essere rilassate, cerchiamo di accettarle per quelle che sono, così
come sono, e semplicemente osserviamole.
E’
molto importante riconoscere quando l’equanimità si manifesta da sola, ovvero
non è presente grazie ad una operazione intenzionale.
Tutti,
di tanto in tanto, possiamo entrare in uno stato di equanimità. Sfruttiamo
l’occasione per osservare quando accade e tale stato tenderà a presentarsi più
e più frequentemente.
A
volte capita, ad esempio, di essere stati sotto il peso di un grande disagio
fisico e che, in un dato momento, ci accorgiamo che, pur non essendo cambiato
il livello di disagio, ne siamo meno infastiditi, meno disturbati.
Spontaneamente
siamo entrati in uno stato di equanimità, di gentile accettazione, che se
osservato troverà la strada per ripresentarsi più e più frequentemente. E’ un
seme piantato nell’inconscio.
4) Come
suggerito dalla tradizione buddhista pronunciare, quando possibile, delle frasi
di equanimità di fronte a situazioni o persone difficili, sostituendo
l’irrigidimento e la tensione derivata dal moto avversivo con affermazioni
come: “che io possa accettare il momento presente così come è”, “che io possa
accettarti così come sei”, “ che io possa accettare me stesso così come sono”.
EQUANIMITA’
E NON INTERFERENZA:
L’equanimità
è non interferenza con il flusso naturale delle sensazioni soggettive, da non
confondersi, come già visto, con l’apatia, che implica indifferenza verso il
flusso delle sensazioni soggettive.
L’equanimità
libera energia interiore per poter rispondere a situazioni esterne: per
definizione essa è un permesso radicale di sentire, un darsi totalmente il
permesso di sentire e quindi è diametralmente all’opposto dell’indifferenza. E’
sentire in modo libero, senza interferire con il rifiuto, la paura, il
desiderio, l’attaccamento che possono sorgere insieme al sentire.
EQUANIMITA’,
DOLORE E PIACERE
Consideriamo
che la maggior parte di noi non ha familiarità con l’esperienza del puro
dolore, ovvero dell’esperienza del dolore senza la resistenza. Quando da una
situazione preconscia noi andiamo coscientemente a sentire un’ondata di dolore,
l’esperienza si è già congelata in una sofferenza accompagnata da una
resistenza-rifiuto. Una parte non irrilevante di questa sofferenza è dovuta
alla resistenza stessa. Quello che le
persone chiamano dolore è una combinazione di dolore e resistenza al dolore.
Quanto
questo sia vero nella percezione del dolore fisico causato da un’azione diretta
sulle articolazioni, è di facile intuizione per chi ha un po’ di pratica sul
tatami
Se
ci addestriamo a resistere di meno al dolore, riusciremo a soffrire di meno, ad
esperire una pura esperienza di dolore priva della sofferenza aggiunta dalla
resistenza.
L’esperienza
di ricevere in modo aperto e consapevole una sollecitazione sul corpo data
dall’azione dell’altro è fortemente educativa. A volte ci si chiede perchè
continuare una pratica nella quale vi sono così tante sollecitazioni dolorose.
La risposta è che sono tutte ottime occasioni per sviluppare equanimità. La
generica e facile etichetta di “masochista” o “sadico” che spesso viene
affibiata ai praticanti con frasi che suonano all’incirca :“ma chi te lo fa
fare?”, “ma che gusto c’è a sbattersi per terra ?” è contraddetta dalla più
ampia comprensione che un lavoro di fondo sull’apertura al presente e alle situazioni
dolorose è connaturata alla ricerca di un’esistenza libera, come nel budo così
nella vita.
Detto
ciò, consideriamo anche che molti non hanno neanche familiarità con
l’esperienza del puro piacere, ciò che le persone chiamano piacere è, di fatto,
una mescolanza di piacere e attaccamento al piacere.
Lasciare
andare la resistenza al dolore, lasciare andare l’attaccamento al piacere sono
i due lati dell’equanimità, ovvero il non interferire con l’esperienza del
flusso delle sensazioni soggettive.
I
CINQUE IMPEDIMENTI
La
mente inamovibile, ovvero equanime nel senso che abbiamo cominciato a vedere
poch’anzi, è una mente libera. Ma libera da che? Anche questa domanda,
raramente trova una risposta esauriente sul tatami.
Per
guardare meglio dentro questo argomento prendiamo spunto dalle parole del
Venerabile Ajahn Brahmavamso, monaco della Tradizione della Foresta
(Theravada):
“L’intera pratica che
conduce all’Illuminazione può essere ben espressa come lo sforzo di superare i
cinque impedimenti, all’inizio sopprimendoli temporaneamente al fine di
sperimentare i jhana (stati di felicità interiore) e la saggezza intuitiva, e
poi superandoli permanentemente tramite il pieno sviluppo del nobile ottuplice
sentiero.
Quindi, quali sono questi
cinque impedimenti? Sono:
KAMACCHANDA: desiderio
sensoriale
VYAPADA: malevolenza
THINA-MIDDHA: pigrizia e
torpore
UDDHACCA: inquietudine e
rimorso
VICIKICCHA: dubbio”
Ovviamente le parole del
Venerabile Brahmavamso si riferiscono alla pratica della meditazione (Samatha e
Vipassana) e non al Budo. Partendo dal presupposto che, se esista o meno
differenza radicale tra le due pratiche, è argomento da esaminare con
attenzione, possiamo comunque rilevare facilmente diverse analogie e
“ritagliare” i concetti di cui sopra alla misura dell’esperienza sul tatami.
KAMACCHANDA – desiderio
sensoriale – libertà da se stessi
Il primo impedimento alla
coltivazione di una mente inamovibile è l’attaccamento alle informazioni che ci
derivano dai sensi. Guardare e vedere sono due attività diverse e distinte, la
prima contenendo un fattore di volontarietà che è assente nella seconda.
Di fronte ad una presa, ad
un atemi (colpo) la nostra mente viene catturata dal movimento e convoglia
tutta la propria capacità attentiva su di esso. Inevitabile effetto
dell’attaccarsi alla percezione sensoriale è l’immediata strutturazione di una
mente imprigionata che reagisce allo stimolo invece di agire includendo lo
stimolo nel più ampio quadro della consapevolezza. Si tratta della fase della
libertà da se stessi.
Ancora nelle parole del
Veneraile Brahmavamso: “Quando il desiderio sensoriale è superato, la mente di
colui che medita non ha interesse nella promessa di piacere e neppure nel
benessere di questo corpo. Il corpo sparisce e i cinque sensi si spengono. La
mente diventa calma e libera di guardare all’interno. La differenza tra
l’attività dei cinque sensi e il suo superamento è simile alla differenza tra
guardare fuori da una finestra e guardare in uno specchio. La mente che è
libera dall’attività dei cinque sensi può veramente guardare all’interno e
vedere la sua vera natura. Solo in questo può emergere la saggezza relativa a
ciò che siamo, da dove veniamo e perché?!”
VYAPADA – malevolenza –
libertà dall’altro
“La malevolenza si
riferisce al desiderio di punire, nuocere o distruggere. Include il puro odio
verso una persona, o persino verso una situazione, e può generare così tanta
energia da essere allo stesso tempo attraente e dare assuefazione. Quando si
esprime appare sempre giustificata perché il suo potere è tale che facilmente
corrompe la nostra capacità di giudicare correttamente”.
Questo impedimento
riguarda la relazione io-altro. Spesso sentiamo dire che nel Budo è necessario
passare dal concetto di avversario al concetto di compagno di pratica per raggiungere
un orizzonte di prosperità mutuale. Certamente questa è condizione
imprescindibile per armonizzarsi con l’altro ma ancora più alla radice c’è la
impossibilità di coltivare equanimità, e quindi inamovibilità, se l’altro
diventa un ostacolo (dal latino hostes – nemico - ). E’ quindi importante per
non essere trascinati in uno stato di avversione, disporsi in modo propositivo
e collaborativo all’incontro con l’altro, dirigendosi verso e non contro.
Questa è probabilemte la radice di “musubi” l’unione che si deve ricercare con
l’altro.
“...e sarà altrettanto
improbabile lasciare cadere il respiro a causa di alcuni pensieri distraenti
come è improbabile per una madre distratta lasciar cadere il proprio figlio!
Quando la malevolenza è superata, allora sono possibili relazioni durature con
altre persone, con se stessi e, nella meditazione, una relazione duratura e
piacevole con l’oggetto di meditazione, che può maturare nell’abbraccio pieno
del completo assorbimento”.
Se c’è in noi una
disposizione d’animo a distruggere l’altro, sarà molto difficile che il
contatto, e mi riferisco al contatto fisico, non ne venga influenzato. Faremo
così una notevole fatica a non rompere la relazione e i punti di contatto tra
il nostro corpo e il corpo dell’altro. Per contro, questo andare insieme
sorgerà spontaneo se sostituiremo la malevolenza con l’apertura (o la
gentilezza – metta – in senso buddhista). Non dovendo più occuparcene, il
contatto si sosterrà da sè e ci lascerà liberi e quindi in una condizione
fertile per l’equanimità.
THINA-MIDDHA: pigrizia e
torpore
Citando
un noto Sensei, Stephane Benedetti, esiste una pigrizia stupida e una pigrizia
intelligente. La prima consiste nella passività che non realizza pienamente la
consapevoezza del momento presente, con la conseguenza nel budo di azioni
scomposte e marzialmente poco intelligenti. La seconda consiste nel non fare
nulla di più di ciò che è strettamente necessario (ma nulla di meno!
Ammonirebbe il succitato sensei) e quindi è una forma di saggia rinuncia (pali
– Nekkhamma) a tutto ciò che si aggiunge alla semplicità (altra traduzione
della stessa parola pali) del momento presente.
Nel
Budo incontriamo moltissime forme di pigrizia: E’ pigrizia la ripetizione
meccanica, e quindi vuota per definizione, di un esercizio o un compito. E’
pigrizia la sostituzione di ciò che si sa a ciò che si osserva quando viene
mostrata una tecnica, è pigrizia la postura lassa e la parola vana e l’elenco
potrebbe continuare.
Scrive
Ajahn Brahmavamso:
“Pigrizia e torpore si
riferiscono alla pesantezza del corpo e all’intorpidimento della mente che
trascinano l’individuo verso un’inerzia disabilitante e una profonda
depressione. Il Buddha li paragonava all’essere imprigionati in una cella buia
e stretta, impossibilitati a muoversi liberamente nello splendore della luce
esterna. Nella meditazione questa condizione mentale provoca debolezza e
consapevolezza intermittente e può persino portare, senza neppure accorgersene,
ad addormentarsi![...] Un bambino ha un interesse naturale, e di conseguenza
energia, perché il suo mondo è del tutto nuovo. Quindi, se possiamo imparare a
guardare alla nostra vita, o alla nostra meditazione, con la mente del
principiante, possiamo vedere sempre nuove prospettive e possibilità che ci
tengono lontani dalla pigrizia e dal torpore, vivi e pieni di energia. Allo
stesso modo, possiamo sviluppare piacere in qualunque cosa stiamo facendo;
allenando la nostra percezione nel vedere il bello nell’ordinario generiamo un
interesse che evita la semi-morte della pigrizia e del torpore. La mente ha due
funzioni principali, "fare" e "conoscere". La via della
meditazione è calmare il " fare" fino alla completa tranquillità
mentre viene mantenuto il " conoscere". Pigrizia e torpore si hanno
quando calmiamo senza attenzione il "fare" e il
"conoscere", incapaci di distinguere tra di loro.”
Quindi la mancanza di
energia, di giusta tensione e di una attitudine propositiva sia negli aspetti
mentali che in quelli tecnici nella pratica imprigiona la mente e allontana da
quello stato di libertà e consapevolezza sul quale può fiorire la mente
equanime.
UDDHACCA: inquietudine
All’opposto di uno stato
di ottundimento determinato dalla pigrizia troviamo uno stato di agitazione
della mente e del corpo, una mancanza di organizzazione che produce “rumore”
superfluo e, conseguentemente, l’impossibilità di ottenere movimenti puliti,
precisi e misurati.
Una mente inquieta,così
come un corpo agitato, trascinano il praticante in una concatenazione di
reazioni e di attaccamenti a questo e a quello.
Un ottimo modo di
coltivare l’equanimità è notare l’agitazione e rallentare l’esecuzione dando
spazio all’attenzione che potrà essere così focalizzata senza disperdersi.
Ancora seguendo le parole di Ajahn
Brahmavamso:
“L'irrequietudine si riferisce ad una mente
che è come una scimmia, che salta in continuazione da un ramo all’altro, non
riuscendo mai a soffermarsi a lungo in nessun luogo. E’ causata da uno stato
mentale che cerca difetti, il quale non può essere soddisfatto dalle cose così
come sono, e quindi deve continuare a muoversi con la speranza di qualcosa di
meglio, sempre altrove.
Il Buddha paragonava
l’irrequietudine all’essere schiavi, che devono continuamente scattare agli
ordini di un padrone tirannico che esige sempre la perfezione e non gli
permette di fermarsi. L’irrequietudine è superata sviluppando la contentezza,
che è l’opposto del trovare difetti. Impariamo la semplice gioia di essere
soddisfatti con poco, piuttosto che volere sempre di più. Siamo grati per
questo momento, piuttosto che andare a vedere le sue mancanze. Per esempio,
nella meditazione l’irrequietudine è spesso l’impazienza di muoversi
velocemente allo stadio successivo. I progressi più veloci sono conseguiti da
chi è contento dello stadio in cui al momento si trova, ed è nell'approfondire
questa contentezza che matura lo stadio successivo. Quindi siate attenti al
" voler andare avanti", ed invece imparate come fermarvi in una
apprezzante contentezza. In questo modo, il "fare" sparisce e la
meditazione fiorisce.”
Una
pratica irrequieta è anche determinata dal continuo autorimprovero e dall’analisi
senza fine di ciò che non va o che manca o che può essere fatto meglio. Questa
disposizione d’animo, lungi dall’essere costruttiva, non produce alcuna
equanimità e non permette lo sviluppo di fudo-shin. Ovviamente non si tratta di
indulgere con se stessi o, ancor meno, pensare che qualsiasi cosa si faccia
vada bene, non importa come. Al contrario, mantenere la mente equilibrata tra
l’osservazione di ciò che accade e il sincero apprezzamento per ciò che c’è,
uniti ad una fervente disposizione d’animo orientata verso la perfezione ci
connette ad uno spazio equanime.
VICIKICCHA: dubbio
“.Il dubbio si riferisce
alle domande interne che disturbano nel momento in cui dovremmo silenziosamente
muoverci più in profondità. Il dubbio può mettere in discussione la propria
abilità "Posso fare questo?" o mettere in discussione il metodo
"E’ questo il modo giusto?" o mettere in discussione persino il
significato "Che cos’è?". Dovremmo ricordarci che tali domande sono
ostacoli alla meditazione perché vengono poste al momento sbagliato e quindi
diventano un’intrusione, oscurando la nostra chiarezza. Il Buddha collegava il
dubbio all’essere perso in un deserto, senza avere dei punti di riferimento. Un
tale dubbio è superato raccogliendo indicazioni corrette, avendo una buona
mappa, così da riconoscere i segni impercettibili nel territorio non familiare
della meditazione profonda e sapere quindi quale direzione prendere” (Ajahn
Brahmavamso)
Esistono varie forme di
dubbio che possono ostacolare il sorgere di una mente equanime. Il dubbio circa
se stessi, il dubbio su ciò che si sta facendo, il dubbio sull’altro, il dubbio
sulla situazione presente.
Nel Budo le prime tre
tipologie di dubbi si superano attraverso l’affidamento al proprio insegnante,
al quale si delega imprescindibilmente la facoltà di giudizio su tali
argomenti. Se questo affidamento è sincero, la mente può esimersi dalle mille
domande distraenti e dedicarsi allo sviluppo della pratica.
L’ultima forma di dubbio,
quello sulla situazione presente, si affronta sviluppando l’esperienza ed il
concetto di “irimi” ovvero entrare direttamente con il corpo. Fatta salva
l’accezione tecnica del concetto, è rilevante osservare che “irimi” può voler
dire entrare in contatto direttamente con la verità delle cose nella situazione
presente. In altre parole, andare verso ciò che c’è di fronte a sè senza
pregiudizi e senza essere trattenuti dall’agitazione della mente-cuore.
Questa uscita dal dubbio è
di per sè un entrare in contatto con la verità del momento presente e
rappresenta il cuore della mente equanime che per sua natura è una mente
fiduciosa (altra possibile interpretazione di fudo-shin).
“La fine del dubbio, in
meditazione, viene descritta da una mente che ha piena fiducia nel silenzio, e
quindi non interferisce con nessun altro discorso esterno. Come avere un buon
autista, durante il viaggio sediamo in silenzio affidandoci a lui.”
Entrare, come se l’altro
non esistesse, non occupandoci di lui ma seguendo la direzione del proprio
cammino, senza essere imprigionati, liberi da ciò che è prodotto da cause e
condizioni.
Per
concludere vorrei tornare nella terra del Sol Levante nella quale troviamo Fudō myō-ō , una divinità buddista
(e uno dei tredici Buddha Giapponesi) che porta una spada
in una mano (per recidere delusione e ignoranza) e una corda nell'altra (per
legare "le forze del male", e le passioni e le emozioni violente o
incontrollate). Nonostante un aspetto intimorente, i suoi caratteri di
benevolenza e asservimento agli esseri viventi sono simboleggiati dallo stile
della sua capigliatura tipica della classe servile.
Questa
manifestazione del Buddha Vairocana (Mahadeva) è anche preposta a condurre i
defunti nell’altro mondo. E’ una rappresentazione impressionante della mente
equanime che attinge ad una conscenza priva di attaccamento e avversione e
conduce all’estinzione dell’io-mio.
Riferimenti:
I cinque impedimenti
(nivarana ) del venerabile Ajahn Brahmavamso testo completo su www.santacittarama.it
Corrado Pensa:La
tranquilla passione – Il silenzio tra due onde Ed.Ubaldini e Consapevolezza
Equanime – quaderni A.Me.Co
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