giovedì 16 aprile 2015

UN TATAMI NELLA BIBBIA

Passeggiando tra le parole dei filosofi, di tanto in tanto, ci si imbatte in paesaggi di straordinaria forza evocativa. Se è vero che la poesia, quella alta, quella che tuona dentro l’anima, ci permette di scoprire la magia della parola, è per me altrettanto vero che la filosofia ci permette di assaporarne la chiarezza. Quando tutto questo capita attraverso gli scritti di coloro che sono, nel tempo, assai lontani da noi, allora la meraviglia per me è, se possibile, ancora più grande. La meraviglia nel trovare attualità nel passato, la meraviglia di scoprire che nel pensiero umano, a differenza che nelle scienze positive, quasi tutto si amplia ma ben poco si supera. E questo è rassicurante, radicante direi.
E dunque, camminando nel fitto bosco di carta di un testo di esegesi biblica scritto più di 20 secoli fa, mi sono imbattuto per caso in un tatami e in un dojo e ho ritenuto che questa cosa fosse così singolare, per molti motivi, da meritare qualche riga di condivisione.
Il testo in questione, “le origini del male” è di un greco, di cultura ebraica, nato circa il 20 a.C. e morto, sempre circa, il 45 d.C. , Filone di Alessandria. Un individuo che mi ha sempre affascinato perché entre deux, come direbbero i francesi, ovvero a cavallo tra, come diremmo noi. E la cosa ovviamente mi piace non poco. A cavallo tra due culture (ellenica e ebraica) e proprio a gambe larghe sopra la più importante delle cesure della storia, quella segnata dalla nascita di Gesù il Nazareno. Non ci posso fare nulla, tutto ciò che è complesso, meticcio e amalgamato mi fa diventare curioso e mi richiama come le sirene ad Ulisse. E non ho intenzione di legarmi ad alcun albero maestro per resistere. Quindi mi lancio e, a costo di essere divorato dall’impresa, vi racconto questo strano, paradossale incontro.

Il testo raccoglie alcune tra le innumerevoli esegesi del testo biblico scritte dal filosofo alessandrino e tra esse una è dedicata a Caino e Abele. La storia, più o meno, la conoscete tutti: Caino cattivo cattivo, Abele buono, quasi un idiota, Caino geloso, Abele morto. In sintesi. Ma a Filone le sintesi non piacevano affatto. Al contrario, doveva essere un individuo dotato di una curiosità fuori del comune dato che ogni singola parola del testo biblico per lui era un come fosse un intero libro da sfogliare e capire a fondo. Chissà come si confronterebbe oggi con l’era degli sms e degli emoticon… credo avrebbe una seria crisi depressiva, ma questo è altro argomento. Non perdiamoci.
Filone, dicevo, è curioso. Nulla per lui ha il significato che appare, tutto nasconde in sé un messaggio più alto. Soprattutto quando quel “tutto” è sacro come la parola del Libro. Non ci ricorda qualcosa, a noi aikidoka, riguardo al non restare solo su ciò che si vede con gli occhi? Beh, a me sì… ma ricomincio a divagare, perdonatemi. Dunque, ad un certo punto Filone affronta la storia di Caino e Abele e comincia citando le Scritture:

“E Caino disse a suo fratello Abele: Andiamo nella pianura. E quando si ritrovarono nella pianura, Caino sollevò la mano contro Abele suo fratello e l’uccise”. (Gen. 4, 8)

E quindi? Direte voi. So che posso sembrare un fanatico religioso o peggio…ma vi chiedo di essere gentili e darmi credito ancora per un po’.
Filone comincia l’esegesi del testo con queste parole: “ L’intenzione di Caino è quella di sfidare Abele e di indurlo a discutere con la forza di sofismi speciosi e persuasivi. La pianura, infatti, nella quale lo spinge a recarsi, non è che il simbolo, diciamo noi, del duello e del combattimento. Noi vediamo, infatti, che, sia in guerra che in pace, la maggior parte dei combattimenti si realizzano in luoghi pianeggianti: in tempo di pace, si sa, quelli che affrontano gare sportive cercano stadi e pianori spaziosi, ed in tempo di guerra si usa combattere, sia a piedi sia a cavallo, non certo sulle colline, giacché i danni che possono derivare dalla sfavorevole configurazione del terreno sono più grandi di quelli che i nemici si infliggono reciprocamente nel conflitto frontale”.

Ecco alcuni elementi che emergono e che mi sembrano più che rilevanti circa la nostra Arte e, ancor più, circa le dinamiche umane di coloro che la praticano. Evidentemente la pianura altro non è che il nostro tatami, difatti, più volte, mi è sembrato chiaro che tutta la nostra pratica è una simulazione alleggerita il più possibile dagli elementi di imprevedibilità che sono propri delle situazioni di conflitto che si possono subire quando ci si trovi coinvolti in situazioni violente. Tutta la nostra pratica, compreso il luogo della pratica: morbido, antiscivolo, senza irregolarità. In una parola: una pianura.
Ci si potrebbe chiedere se questa semplice assonanza tra pianura e tatami giustifichi tutte queste parole (inutili…?). Bene, la risposta è ovviamente no. E quindi, a meno che lo scopo non sia di annoiarvi, c’è di più.
Nell’esegesi di Filone, Caino ha molti significati. Il primo di questi è il sofista ovvero colui che promulga una falsa verità dichiarandola autentica attraverso ragionamenti contorti e fuorvianti. La pianura è il terreno di scontro tra verità e non verità, tra scienza e ignoranza. Lo scontro è tra l’irrazionalità, ovvero le passioni, i ragionamenti fallaci che nutrono l’io e soprattutto la convinzione di detenere una verità morale e ideologica che nell’essenza è solo ideologia e quindi tende a esprimere e legittimare una espressione politica e di potere, ovvero Caino, e la ragione, Abele,  che è in noi, ovvero una moralità propria dell’anima in quanto tale . E’ in ultima analisi il luogo dell’educazione, un luogo nel quale non si scende a compromessi con le passioni ma queste ultime devono essere piegate al prezzo di una dura fatica.

Non vi viene in mente proprio nulla? Ci ho messo un po’ anche io ma ad un certo punto un parallelo con più livelli della mia vita di aikidoka è emerso.
Un primo livello è quello della nostra mente all’inizio, e non solo, della pratica. Entriamo sul tatami, ovvero nella pianura, invitati il più delle volte da spinte egoiche molto forti. Autoaffermazione, desiderio di diventare più forti, più capaci, di poter vincere il nemico. Entriamo pieni di sofismi su cosa sia un’arte marziale, cosa sia lo scontro e cosa sia l’efficacia e la vittoria. Inevitabilmente nella pianura, che ce ne rendiamo conto o meno, insieme a Caino entra anche Abele: una spinta verso qualcosa di altro, qualcosa di più alto. In fondo avevamo molte altre possibilità ma qualcosa ci ha chiamato su un tatami piuttosto che su un ring. Caino e Abele cominciano in noi una difficile discussione fatta di un dialogo interno noto a molti praticanti: “E’ efficace? Funziona? E’ la “vera” via? A questo dialogo Caino partecipa da una parte con una sfiducia continua verso tutto ciò che lo disconferma e dall’altra con un rafforzamento progressivo delle proprie convinzioni sul vero e sul giusto. Abele invece resta vittima apparente, innocente, disponibile ma indifesa (almeno così pare!). Filone assimila Dio alla consapevolezza, e Abele ha Dio con sé ovvero la parte più “debole” di noi, quella che rifiuta l’idea dello scontro ha in sé una grande forza silenziosa: la consapevolezza.

Un secondo livello ha a che fare con un’altra interpretazione di Caino: l’amore di sé.
Dato per compreso che la pianura simboleggia il conflitto, Abele rappresenta la dottrina dell’amore, Caino la dottrina dell’amore di sé. I promotori di quest’ultima dottrina hanno assai spesso notevoli abilità oratorie con le quali assai di frequente riescono a far apparire ragionevole e appagante, a mezzo di artificiosi argomenti, la via della soddisfazione dei piaceri e del corpo. In ultima analisi la via dell’ego.
Dalla propria Caino ha una falsa forza derivata dalla apparente debolezza di Abele che rifiuta di scontrarsi e di rafforzarsi sul piano dialettico per vincere a tutti i costi. Una forza falsa perché fratricida.

E qui non posso non pensare a tutti coloro che riempiono la pratica di parole e di idee che servono solo a rafforzare il proprio ego, a tutti quelli che portano avanti delle bandiere e dividono il mondo dell’aiki in scuole, fazioni o peggio, sette. Non posso non pensare ai tanti che continuano a vedere nell’altro un nemico sul quale vincere sia sul tatami che fuori, sia tecnicamente che dialetticamente. E, insieme, penso a quanti, invece, non vogliono scendere a questo livello e non accettano di ridurre la ricerca del senso della pratica ad una bagarre intellettuale o, peggio, tecnica.

Il tatami può diventare il luogo della coltivazione dell’ego, dove tutto ciò che è diverso o difforme dalla propria idea viene attaccato, ridicolizzato o peggio ancora distrutto. Al contrario, la pianura nella quale ci incontriamo con l’altro si trasforma in luogo dove pascolare un gregge pacifico solo se capiamo che il campo di battaglia deve essere trovato dentro di noi.

Vale la pena concludere con alcune considerazioni sul prosieguo della storia  che presenta alcuni aspetti interessanti e forse poco noti. Il primo aspetto è che Abele, nel testo biblico, non muore affatto.  Dio, la consapevolezza, chiede a Caino “Dov’è Abele?”, “non lo so” risponde quest’ultimo. Ora... che Dio onniscente non sappia dove è Abele è cosa impensabile, evidentemente la domanda ha un tono provocatorio e può essere letta così: “perché ti sei mutilato? Dov’è finita la purezza che era in te?”. Ovvero, a forza di coltivare l’ego, l’essere umano perde quella capacità di riconoscere un bene più alto nelle proprie scelte e nelle proprie azioni, uccide la possibilità di tendere verso una morale più alta. E infatti Caino dice, mentendo, “Non lo so!” e aggiunge “ sono forse il custode di mio fratello io?” Seguitemi nella metafora, è come se dicesse “sono forse io a dovermi occupare di queste cose?” Aikidoisticamente suona come: “chi se ne frega dell’armonia se quest’ultima mi fa sembrare debole o vulnerabile. E chi se ne frega anche di Uke…sono forse io che mi devo occupare di lui?”
Ma, l’altro aspetto interessante è che Dio dice “Che hai fatto? La voce di tuo fratello mi giunge dal suolo insanguinato, ora sii maledetto, lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lo lavorerai non ti darà più i suoi prodotti…”
Concedetemi ancora di seguire Filone nella sua esegesi. Egli nota che Abele non è dunque affatto morto, se grida verso Dio dal suolo. Tutto il passaggio è un monito alla parte di noi che vuole prevalere a tutti i costi, sia contro ciò che ci spinge verso l’armonia, sia contro tutti coloro che minacciano la nostra egoica volontà di potenza. Ciò che incontriamo in questo modo è solo il tormento di quello che abbiamo tentato di uccidere e che invoca a gran voce la nostra consapevolezza. E la “punizione” è che nessun tatami darà più il frutto che gli è proprio, anche se lo coltiveremo con ogni sforzo possibile.
Evidentemente la nostra pratica si conclude nel momento in cui decidiamo di uccidere Abele dentro di noi e di usare violenza alla Via per aggiogarla alle nostre esigenze.
Ma il monito non finisce qui, Dio dice :”Però chiunque ti ucciderà subirà la vendetta sette volte”. Il che significa sia che non abbiamo il diritto di interferire con coloro che decidono di seguire la Via in modo egoico (non diventeremmo forse come loro in questo giudicarli?) , sia che non dobbiamo uccidere questa dualità in noi stessi. D’altra parte l’armonia non può avvenire senza opposti da armonizzare. E non è forse quello che l’Aiki ci chiede?