sabato 28 marzo 2015

KATATEDORI: IL GRANDE INCOMPRESO OVVERO QUANDO PRENDERSI I POLSI E’ MOLTO PIU’ CHE PRENDERSI I POLSI.


L'esperienza visiva dello spazio non è l'unica possibile, ad essa si aggiunge, tra le altre, quella cinestetica, ovvero la percezione fisica del movimento (kynos=movimento aistesis=sensazione). I più antichi disegnatori di giardini giapponesi possedevano una grande consapevolezza di questo modo di percepire lo spazio attraverso i ricettori immediati, ovvero pelle e muscoli. Hall (La dimensione nascosta, op.cit.) ci conferma: ”Mancando i grandi spazi aperti, e vivendo a stretto contatto, i giapponesi impararono a sfruttare al massimo i piccoli spazi.
I loro giardini non sono disegnati solo per essere guardati con gli occhi: L’esperienza di passeggiare in un giardino giapponese comprende una gamma insolitamente ricca di sensazioni muscolari. Il visitatore è costretto di volta in volta a guardare dove mette i piedi, avanzando cautamente per un cammino fatto di sassi irregolarmente intervallati attraverso un laghetto. Anche i muscoli del collo vengono messi deliberatamente in gioco. Il visitatore deve levare prontamente lo sguardo, arrestandosi per un momento a cogliere la prospettiva fuggevole di un paesaggio, che svanisce quando muove il piede verso un altro appoggio." (HALL, op.cit. pp.75,75). Queste considerazioni ci inducono a considerare, ancora una volta, lo spazio e la prospettiva come MA ovvero intervallo tra i corpi e realtà tridimensionale di cui si fa esperienza anche muscolare. Il cambio di prospettiva determinato da uno spostamento (e quindi da un lavoro muscolare) ci regala una sensazione nuova dello spazio, una sensazione fisica che ignoriamo quando lo consideriamo solo distanza che separa gli oggetti. Lo spazio che è tra i corpi non è una realtà indifferenziata e indeterminata, ma caratterizzata da qualità specifiche.

Molti di noi sono abituati a dare rilevanza solo alla percezione che si determina attraverso i ricettori a distanza (occhi, orecchie e naso) e a trascurare quello spazio, pur esistente, che percepisce il caldo ed il freddo. Questo spazio termico è determinante per la nostra sopravvivenza tanto quanto lo spazio che copriamo con i ricettori a lunga distanza: la gente gelerebbe d’inverno o collasserebbe per il caldod’estate se non percepisse nettamente e distintamente caldo e freddo.

Non conviene soffermarsi troppo sull’importanza dello spazio termico, è appena il caso di notare, comunque, che rabbia, desiderio e molte altre emozioni variano il calore corporeo e che attraverso i segnali termici mandiamo e riceviamo moltissime informazioni, alcune delle quali causano reazioni nell'altro. Il controllo del proprio stato emotivo predicato dall’Aikido, trova una sua possibile spiegazione in questo: quando ci arrabbiamo la temperatura corporea aumenta e chi ci è vicino può percepire questa variazione in tre modi distinti. Visivamente, a causa dell'arrossamento della pelle nei luoghi dove v’è una maggiore presenza di capillari (ad esempio le guance), olfattivamente perché con il calore l'odore del corpo aumenta di intensità, e mediante la sensibilità
termica della pelle. Questi segnali scatenano reazioni inconsce offensive o difensive in chi li riceve, a seconda che sia aggressivo o remissivo di indole. Il calore corporeo è qualcosa di altamente personale , ed evoca nel nostro spirito idee di intimità e di esperienze dell’infanzia. Molte persone, e di diverse culture, seguono il principio del non contatto (cioè evitano di toccare estranei). È comune il senso di fastidio che si prova nel sedersi su poltrone imbottite appena lasciate da un estraneo.

Hall riferisce che è comune nei sottomarini militari; che l’equipaggio si lamenti per il caldo delle cuccette, dovuto alla pratica di dividersi la stessa cuccetta a seconda dei turni di lavoro. Non si sa perché il proprio calore non desti ripugnanza, e quello di un estraneo invece si: ipotesi scientifiche
identificano la causa nella estrema sensibilità per le piccole differenze di temperatura. Sembra che l'uomo reagisca negativamente ad una temperatura non familiare.

Nella pratica dell’Aikido mi è capitato spesso di scorgere espressioni di imbarazzo, e talvolta difastidio, nei nuovi praticanti quando per lavorare era necessario afferrare l’altro o toccarlo.
Ancora molto è da scoprire circa lo spazio termico e lo spazio tattile. Ciò che è stato chiaramente determinato attraverso la ricerca scientifica è che le esperienze visive e tattili sono così strettamente intrecciate da non poter essere naturalmente disgiunte. Come per i bambini debbono passare molti anni perché si arrivi a subordinare il mondo tattile a quello visivo (essi, come è noto, toccano, manipolano e assaggiano tutto), così nell’Aikido l'esperienza della pratica attraverso il contatto (Katate-dori) costituisce un passaggio fondamentale ed imprescindibile. E non a caso il lavoro attraverso “dori”, la presa di un distretto corporeo dell’altro, è il primo passaggio didattico che permette di introdurre la complessità tecnica.
La presa deve essere solida (anche se non eccessivamente vincolante) e restituire una sensazione di pieno contatto e connessione. In altri termini è un attivatore del mondo sensoriale tattile e termico. Esattamente le prime sensazioni che sviluppiamo da piccolissimi quando siamo ancora incapaci di utilizzare gli altri sensi e il contatto e il calore del corpo di nostra madre ci comunicano le prime informazioni di connssione.
Man mano che la pratica avanza la comunicazione diventa sempre più complessa e meno tattile, esattamente come accade nello sviluppo delle facoltà comunicative dell’individuo che passa dal gesto alla parola e dalla parola alla comunicazione simbolica. Ma questo è argomento complesso che merita una trattazione a sé.

 Vorrei invece aggiungere alcune considerazioni sul rapporto tra senso del tatto e vista. Lo psicologo James Gibson ha studiato approfonditamente i rapporti tra vista e tatto. Egli sostiene che se noi li concepiamo come due canali d’informazione, attraverso i quali il soggetto esplora e scandaglia attivamente con una collaborazione tra i sensi, il flusso unitario delle impressioni sensoriali ne verrà rinforzato e quindi anche la nostra capacità di percepire (e questo va a supporto della tesi che lavorare in Katatedori aumenta la sensibilità).
Gibson distingue, inoltre, tra tatto attivo (sonda tattile, nella fattispecie Uke che attivamente propone la presa) e tatto passivo (l 'essere toccato, ovvero Tori che riceve la presa e quindi anche il contatto) e afferma che le due esperienze coinvolgono in modo diverso i protagonisti. Facendo lavorare zone diverse del cervello.  Questo ci permette di comprendere che nella pratica Tori e Uke fanno ambedue una esperienza strutturale e che le due esperienze sono complementari e sviluppano la totalità dei livelli di percezione spaziale:

a)percezione visiva, ovvero la visione globale dell'altro nell'atto di avvicinarsi e di afferrare il polso.

b) percezione tattile, ovvero la percezione del contatto della presa

c) percezione termica, ovvero la sensazione termica che si avverte nel contatto

d)percezione cinestetica, ovvero la percezione del lavoro muscolare del nostro corpo nel ricevere la presa e della mano dell’altro nell’atto di afferrarci e di imprimere una forza

Il mondo visivo è una sintesi di tutte queste percezioni. Gibson scrive: “muovendosi attraverso lo spazio, l’uomo organizza e consolida il suo mondo visivo, avvalendosi dei messaggi che egli riceve da tutto il corpo”. Il coinvolgimento delle esperienze sensoriali e cinestetiche di tutto il corpo determina una vera e propria “creazione del proprio mondo visivo”. Una montagna non ha più lo stesso aspetto di prima agli occhi di chi l'ha scalata. Chiunque pratichi assiduamente sa che alcune cose che i Sensei mostrano si vedono solo dopo aver fatto esperienza come loro uke. Guardare una tecnica dopo averla subita è una esperienza completamente nuova.

Lavorare in katatedori ci insegna ad associare e armonizzare, fino a sintetizzare, le varie percezioni, rendendo chiaro l’uso dello spazio (MA). Inoltre il contatto fisico agevola l'apertura verso l'altro, il diverso, lo sconosciuto, aiutando il praticante a superare l'istintiva barriera psicologica nei confronti dell'invasione del proprio spazio privato L'unico modo per raggiungere questo risultato è accettare la presa come un'occasione per rendersi coscienti attraverso l'altro, unificando le proprie percezioni, rifiutando l'idea del conflitto e del confronto che inevitabilmente porterebbe ad un irrigidimento e ad una perdita della sensibilità.

Le perplessità su questo tipo di allenamento derivano da una erronea interpretazione di ciò che si sta facendo. L'evidente improbabilità di essere attaccati da un avversario che ci blocca un polso spinge molti praticanti, soprattutto all'inizio, a ritenere questa pratica inutile e tediosa. Per la verità questo tipo di allenamento ha una sua validità anche dal punto di vista del combattimento, tuttavia ritengo che i maggiori benefici avvengano per il corpo e per le sue percezioni. 
Il contatto con l'altro ci permette di determinare una condizione del tutto nuova: il nostro apparato propriocettivo, ovvero quello formato da un particolare tipo di nervi chiamati, appunto, propriocettori, che tengono l'uomo informato su ciò che avviene dentro di sè quando mette in azione le catene muscolari e l'apparato esterocettore, ovvero l'insieme dei nervi che trasmettono le sensazioni termiche, tattili e dolorose al sistema nervoso centrale, si unificano rinforzando nettamente la nostra percezione cinestetica. Inoltre, l'altro contribuisce a modificare le nostre percezioni e agendo su di noi attraverso lo spazio ed il contatto ci fornisce moltissime informazioni che passano immediatamente attraverso il nostro sistema sensoriale periferico. Da questa condizione è possibile trasformare il rapporto e unificare la propria intenzione con quella dell'altro. Questo nella pratica si chiama KI MUSUBI e costituisce la porta per un livello di relazione assai più ampio e complesso, livello che rimane ignoto a coloro che si ostinano a cercare l’efficacia piuttosto che cercare se stessi.


Paolo Narciso

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